Dal 15 al 21 marzo 1944 la seconda divisione neozelandese e la quarta divisione indiana si immolarono inutilmente sul fronte di Cassino. La resistenza offerta dai paracadutisti tedeschi della prima divisione Fallschirmjäger fu superiore ad ogni aspettativa e rimane, ancora oggi, un esempio insuperato di cosa possono fare pochi uomini superbamente addestrati in una battaglia urbana e montana. Non che neozelandesi e indiani fossero soldati da poco, anzi: erano le migliori truppe dell’Impero britannico, insieme ai canadesi, ma ciò che fece difetto fu il comando alleato. Per fretta, impazienza, frustrazione, gli Alleati avevano quasi distrutto due divisioni americane, due inglesi, e le due sopranominate, oltre a dissanguare il Corpo d’armata francese appena entrato in linea. La nuova offensiva fu rimandata a primavera e, nel frattempo, la Resistenza romana subiva colpi durissimi da parte della polizia nazifascista.
E così venne il 23 marzo 1944, quando i GAP romani attaccarono una colonna di soldati altoatesini in via Rasella. Da ottant’anni si discute sull’opportunità e sulla legittimità dell’attacco: in alcuni casi anche di secondi fini dei comunisti che avrebbero visto l’opportunità di eliminare, per mano tedesca, i prigionieri militari e monarchici e quelli trozkisti del gruppo “Bandiera rossa”. Ed è prevedibile che, anche in questo anniversario, ritorneranno le solite polemiche che in nulla contribuiscono a comprendere quanto accaduto. Su queste pagine vi sono già stati numerosi interventi in proposito e non ci si dilungherà ancora, per concentrarci su quel che ha più valore, ossia sui nomi e sulle storie di alcune vittime della rappresaglia.
Sull’opportunità vale quanto scritto dall’agente segreto americano Peter Tompkins nel suo Una spia a Roma (1962) che, pur apprezzando la professionalità dell’attacco, rimproverò ai comunisti di agire di propria iniziativa senza coordinarsi con nessuno. “La prima cosa che pensammo – commenta Tompkins, che stava progettando un attacco al carcere dove era torturato il suo collaboratore Maurizio Giglio – fu che non c’era nessuna utilità nell’uccisione di trenta poliziotti tedeschi. Perché piuttosto non avevano rischiato la pelle in un assalto a via Tasso? Perché non avevano scelto come bersaglio Kappler e la sua banda di macellai?”. Inoltre la scelta fatta dai GAP di colpire nel centro di Roma non poteva non avere conseguenze anche sulla popolazione e, evidentemente, il rischio era stato accettato con ogni responsabilità a carico di autori e ideatori dell’attacco.
Le autorità fasciste, terrorizzate dai tedeschi, scelsero di mandare al massacro decine e decine di innocenti. Lo dicono le cifre, reperibili sul sito internet del mausoleo ardeatino. Nell’eccidio furono uccise 335 persone: 154 persone a disposizione dell’Aussenkommando, sotto inchiesta di polizia; 23 in attesa di giudizio del Tribunale militare tedesco; 16 persone già condannate dallo stesso tribunale a pene varianti da 1 a 15 anni; 75 appartenenti alla comunità ebraica romana; 40 persone a disposizione della Questura romana fermate per motivi politici; 10 fermate per motivi di pubblica sicurezza; 10 arrestate nei pressi di via Rasella; una persona già assolta dal Tribunale militare tedesco; sette persone tuttora non identificate. Le tombe sono però 336, perché una contiene i resti di una signora settantaquattrenne, Fedele Rasa, uccisa nelle vicinanze da una sentinella tedesca. La signora Rasa era andata a raccogliere cicoria e non aveva sentito l’altolà del nazista che, ligio agli ordini ricevuti, la assassinò a fucilate. Meno della metà delle vittime erano partigiani, ma di loro, oggi, vorremmo ricordare alcuni nomi e le formazioni di appartenenza per far capire come la resistenza comprendesse italiani di ogni idea politica.
I gruppi più numerosi furono i seguenti.
Fronte militare della Resistenza (tendenza monarchica): 39 vittime di cui 12 medaglie d’oro al valor militare: Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, 43 anni, colonnello, volontario in Spagna a fianco dei franchisti, coordinatore dell’attività delle bande monarchiche, torturato per settimane; Vito Artale, generale di artiglieria, 66 anni; Raffaele Aversa, capitano dei carabinieri, 38 anni; Manfredi Azzarita, capitano di cavalleria, 32 anni; Dardano Fenulli, generale vicecomandante della divisione Ariete, 55 anni; Filippo de Grenet, tenente, 40 anni, stretto collaboratore di Montezemolo e con lui arrestato; Roberto Lordi, 50 anni, e Sabato Martelli Castaldi, 48 anni, generali dell’aeronautica, costituitisi ai nazisti per scagionare il proprietario del polverificio da dove rifornivano di munizioni le bande armate; Umberto Lusena, 40 anni, ebreo, ex legionario fiumano, maggiore dei paracadutisti; Simone Simoni, generale, 64 anni, pluridecorato al valore, padre di Gastone, caduto a El Alamein e decorato con la Movm alla memoria; Manfredi Talamo, 49 anni, tenente colonnello dei carabinieri, esperto di controspionaggio; Ugo De Carolis, 45 anni, maggiore dei carabinieri; Ilario Zambelli, 35 anni, capo segnalatore.
Giustizia e Libertà: 52 vittime di cui tre medaglie d’oro: Pilo Albertelli, 37 anni, che ebbe le costole fratturate e cercò di suicidarsi due volte; Armando Bussi, impiegato, 48 anni; Aldo Eluisi, 46 anni, ex ardito del popolo.
Bandiera rossa: 55 vittime di cui tre Movm: Romualdo Chiesa, 22 anni, reso quasi cieco e con il volto trasformato in piaga sanguinante per le sevizie subite; Alberto Cozzi, operaio, 19 anni; Aladino Govoni, 36 anni, figlio del poeta Corrado Govoni.
Massoni: 19 vittime tra cui Placido Martini, 65 anni, garibaldino nella guerra greco-turca del 1897, avvocato, ex gran Maestro della Massoneria.
A questi vanno aggiunti gli uomini della Banda Caruso, composta da carabinieri tra cui 9 Movm: Candido Manca, 37 anni, ragioniere; Francesco Pepicelli, 38 anni, maresciallo; Augusto Renzini, 46 anni; Romeo Rodriguez Pereira, 26 anni; Genserico Fontana, 26 anni, capitano; Giovanni Frignani, 47 anni, tenente colonnello; Calcedonio Giordano, 28 anni; Gaetano Forte, 25 anni; Gerardo Sergi, 27 anni.
Altre medaglie d’oro erano presenti nelle seguenti formazioni o partiti.
Nello spionaggio militare: Maurizio Giglio, 24 anni, tenente, fonte di preziose informazioni per gli Alleati, collaboratore del capitano Peter Tompkins, crudelmente torturato senza che rivelasse nulla ai suoi aguzzini.
Nel Partito socialista: Giuseppe Lo Presti, 25 anni, socialista.
Nel Partito Comunista: Gioacchino Gesmundo, 36 anni, professore di storia e filosofia al liceo Cavour di Roma; Alberto Marchesi, 44 anni, commerciante; Giorgio Labò, 25 anni, partigiano nei GAP di Roma
Nelle organizzazioni liberali: Carlo Zaccagnini, 31 anni, invalido di guerra, avvocato.
Nelle bande armate del Lazio: Gaetano Butera, carrista dell’Ariete, 20 anni, partigiano; Manlio Gelsomini, 37 anni, capitano; Renato Villoresi, capitano di artiglieria, 27 anni, protagonista della difesa di Roma il 9 settembre 1943.
Quando i camion tedeschi iniziarono a scaricare le vittime davanti alle cave di tufo delle Ardeatine, tra quelle centinaia di uomini posti davanti all’eternità ve n’erano sicuramente moltissimi che dicevano le ultime preghiere. Fra tutti, l’unico prete fucilato in quell’occasione fu don Pietro Pappagallo, medaglia d’oro al valor civile, Giusto fra le nazioni, membro del Fronte militare clandestino e collaboratore di Montezemolo. Era stato arrestato il 29 gennaio per opera di un delatore che si era finto fuggiasco, e ora era lì con i suoi compagni, con i partigiani, con gli ostaggi, con gli ebrei, con la gente presa a caso per far numero. I nazisti iniziarono a prendere i primi cinque fucilandi e li portarono dentro. Alcuni videro don Pappagallo e il suo abito e lo implorarono di benedirli. Pappagallo era legato insieme a un disertore austriaco, Joseph Reider, anche lui condannato a morte.
Questi era stato catturato dai tedeschi, ma era riuscito a dare false generalità e a passare come una spia alleata: se fosse stato individuato come disertore, per lui sarebbe stata morte certa. Reider ricorderà che attorno a don Pietro si era formato un gruppo di prigionieri: tra essi il colonnello Rampulla, il generale Simoni, l’avvocato Martini e poi Montezemolo. “Molti erano incanutiti dal terrore o colti da improvvisa pazzia. In mezzo a quel frastuono udii esclamare una voce mesta e supplichevole: Padre benediteci!. In quel momento accadde qualche cosa di sovrumano: deve avere operato la mano di Dio, perché don Pietro riuscì a liberarsi dei suoi vincoli e pronunciò una preghiera, impartendo a tutti la sua paterna benedizione”. Subito, decine di uomini gli si fecero attorno e Reider, libero dai legami, ne approfittò per fuggire. Catturato subito dopo, fu riportato in carcere e, dopo altre vicende, riuscì fortunosamente a salvarsi.
I condannati venivano portati in fondo alle gallerie e uccisi a cinque per volta. Gli ultimi a morire furono costretti a inginocchiarsi su un tappeto di cadaveri. Alle otto di sera tutto era finito e i tedeschi fecero saltare in aria le gallerie, dopo di che Kappler e i suoi tornarono in caserma a ubriacarsi. Roma fu informata dell’eccidio la mattina del 25 marzo con un comunicato dell’Agenzia Stefani.
Dopo la liberazione di Roma avvenne la rimozione delle salme e il loro esame autoptico iniziò solo il 26 luglio. I 336 morti furono inumati nel sacrario delle Fosse Ardeatine, situato vicino alle catacombe di san Callisto, che è, o dovrebbe essere, una meta obbligata per gli italiani. I nomi che il lettore avrà letto in queste pagine sono altrettanti sarcofagi in pietra, allineati nella penombra di una cripta dove nulla deve disturbare il sonno eterno delle vittime. Solo il nostro silenzio può essere una adeguata risposta a questa visione.
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