Recuperare la dimensione valoriale della scuola, scongiurare il facilismo scolastico, riconoscere l’importanza della cultura del lavoro, sconfiggere l’egemonia esercitata nella scuola italiana (peraltro con risultati molto approssimativi) dal mito delle competenze. È questa, in estrema sintesi, l’ambiziosa idea di scuola che emerge dal libro del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara apparso di recente (La scuola dei talenti, Piemme, 2024).
Il volume – che si svolge tra il saggio intellettuale e l’analisi politica – si articola intorno a tre poli principali: l’analisi delle ragioni del decadimento della preparazione degli studenti; una riflessione su quale bussola valoriale dovrebbe guidare l’educazione scolastica e l’illustrazione di alcuni provvedimenti in corso di attuazione o in avanzata fase di progettazione.
Valditara individua nei miti del ’68 (egualitarismo, anti-autoritarismo, libertarismo) una delle ragioni dello sfilacciamento e impoverimento culturale dell’istituzione scolastica che, incrociandosi con la scuola di massa, hanno provocato gravi danni: la messa in discussione del principio di autorità (superficialmente confusa con l’autoritarismo) e il conseguente indebolimento dell’autorevolezza degli insegnanti, lo smarrimento della serietà educativa, il rifiuto di ogni selezione e, conseguentemente, l’ostilità verso qualsiasi forma di valutazione. Smantellato il rigore della scuola gentiliana, la scuola aperta a tutti non sarebbe riuscita a darsi altri punti di riferimento se non quello del neutralismo educativo e del primato del cognitivo con risultati tuttavia poco incoraggianti come indicano, per esempio, le rilevazioni Invalsi, i dati sulla dispersione e la segmentazione dei livelli di apprendimento in tre Italie scolastiche a diversa velocità.
Per invertire il declino, secondo il ministro, occorre ritessere il filo ideale interrotto nell’ultimo mezzo secolo e rifarsi ai valori fondanti della nostra Costituzione e, in particolare, alla centralità della persona che rinvia, sul piano scolastico, alla centralità dello studente e alla sua formazione alla libertà vigilata dal senso critico. Ciò è possibile se si tengono accesi alcuni fari illuminanti e cioè mete ideali a sostegno della crescita dei giovani: il giusto apprezzamento del sapere, il riconoscimento del merito, il rispetto verso gli altri, la formazione del senso di responsabilità, l’importanza del lavoro, la padronanza delle nostre radici culturali. “La scuola – annota Valditara – non è un ospedale o un consultorio. Non è deputata a effettuare trattamenti di cura psicologica. La scuola istruisce e educa”. Una secca risposta a quanti ritengono che tra i compiti della scuola debba essere inclusa anche la dimensione psico-socio-assistenziale.
Una cospicua parte del volume è infine dedicata agli interventi già messi in campo o previsti per rispondere alle necessità urgenti: la lotta contro la dispersione che ancora affligge un gran numero di ragazzi, iniziative mirate a ridimensionare le distanze scolastiche tra le varie regioni italiane (il piano Agenda Sud), la riforma dell’istruzione tecnica e professionale, il lancio di una “grande mobilitazione del privato per la scuola” per favorire l’incontro fra le richieste di investimenti delle scuole e le necessità formative delle imprese, una più oculata attenzione ai giovani immigrati per il loro pieno inserimento nella vita del nostro Paese, la regolarità dei concorsi per il reclutamento del personale della scuola, l’immancabile rassicurazione di seguire gli sviluppi sull’Intelligenza Artificiale e l’uso delle tecnologie in classe.
Un libro utile per capire il Valditara-pensiero, su cui vorrei svolgere tre brevi osservazioni.
La prima riguarda il peso assegnato dall’autore all’influenza della cultura sessantottina. Certamente essa ha avuto la sua incidenza nel creare la mentalità libertaria e lassista di una generazione di docenti (ormai in gran parte fuori dall’insegnamento per ragioni biografiche) e di alcuni sindacalisti nostalgici del passato. Ma ritengo che il ’68 non spieghi tutto e vada considerato almeno un altro fattore importante. Mi riferisco ai ritardi nella lettura della realtà dell’istruzione a larghissimo spettro da parte della classe politica degli anni 70 e 80. In perenne contrasto ideologico, democristiani e comunisti convergevano tuttavia nel ritenere che, salvo pochi ritocchi, la scuola di massa poteva svolgere il proprio compito avvalendosi delle strutture ordinamentali e dei metodi di insegnamento della scuola selettiva. Mancò in quegli anni un illuminato spirito innovatore – com’era invece accaduto con la riforma della scuola media unica – che ripensasse la scuola alla luce dell’esplosione della scolarizzazione secondaria. Mentre la scuola gentiliana entrava in agonia, essa era tenuta in vita artificialmente in mancanza di un’altra scuola che ne prendesse il posto. E come tutti sanno non c’è peggior soluzione che prolungare la vita di ciò che è già morto.
La seconda sottolineatura riguarda il netto distanziamento della scuola ipotizzata da Valditara dagli orientamenti e dalle “raccomandazioni” finalizzate allo sviluppo della “società della conoscenza” individuata dall’Unione Europea come baricentro socio-economico dell’Europa di oggi e di domani. Mentre a livello continentale da tempo ogni sforzo va nella direzione di mettere a punto una griglia di competenze ritenute indispensabili per assicurare un patrimonio cognitivo necessario per vivere nei prossimi decenni, il ministro si esprime per un’opzione diversa.
Valditara punta infatti a valorizzare i talenti personali degli studenti e, in particolare, richiama l’urgenza del recupero dell’esercizio di antiche, e mai spente, ma spesso rimosse, virtù pedagogiche come l’impegno personale, la volontà, la costanza nel lavoro. Lo studio ben fatto costituirebbe l’opportunità ideale non solo per accrescere il sapere personale, ma per forgiare un carattere in grado di accettare la fatica dell’apprendimento e gli stress che accompagnano la carriera di ogni studente: una riserva di attitudini accumulate attraverso l’esperienza scolastica che potrebbero consentire a ciascuno, secondo le sue disposizioni e risorse, di inserirsi da adulto positivamente nella vita associata.
In questa ottica appare centrale il ruolo dei docenti, su cui l’autore si sofferma in diverse parti del libro con una doppia curvatura. D’un lato l’attenzione è rivolta a questioni, per così dire, di natura “sindacale”: eliminazione del precariato, miglioramento degli stipendi, regolarità dei concorsi, tutela dell’incolumità personale, contrasto alla perdita di prestigio sociale. Per altro verso Valditara molto insiste sull’esigenza che i docenti recuperino l’autorevolezza dell’educatore di razza e non siano soltanto abili tecnici della comunicazione didattica e, in quanto educatori, stabiliscano un rapporto forte e stabile con le famiglie.
Il richiamo alla dimensione autorevole nel rapporto interpersonale docente/allievo è molto interessante anche se necessita di qualche puntualizzazione. L’autorevolezza da sola, se non sostenuta da altre qualità umane, rischia infatti di restare un’aspirazione parziale. La vita dell’aula infatti implica la mobilitazione di molteplici aspetti della personalità del docente attraverso cui l’autorevolezza viene conquistata e non solo affermata in via di principio. Mi riferisco alle dimensioni spesso immateriali che incidono anche sulla qualità degli apprendimenti: l’interlocuzione con gli allievi legata alla dimensione empatica, la capacità di “far scoprire” – più che dichiarare astrattamente – il valore del sapere, la coerenza del comportamento, la leggerezza dell’autorità magistrale, la prudenza che l’autorevolezza non diventi invasiva.
Il libro del ministro Valditara restituisce una visione di scuola molto diversa da quella che ha accompagnato l’istruzione italiana negli ultimi due decenni e riscopre dimensioni educative un po’ smarrite nel tempo e sovrastate da una esasperata attenzione per il potenziamento cognitivo. Sembra possibile, insomma, un’altra scuola oltre a quella delle competenze.
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