Attenuata la prima ondata di clamore mediatico, la vicenda dei presunti dossier estrapolati dalle banche dati della Direzione nazionale antimafia (DNA) non può certo definirsi risolta né tanto meno vicina ad essere chiarita. I giorni trascorsi hanno al contrario alimentato la nube di incertezza che la circonda. La percezione che si sta consolidando attraverso le audizioni e le esternazioni mediatiche dei protagonisti è che il baricentro delle responsabilità nei controlli su quanto avveniva all’ufficio delle Segnalazioni di operazioni sospette (SOS) tra il 2019 e il 2022 sia da ricercare all’interno della Procura nazionale antimafia, e ciò non è affatto una buona notizia per la tenuta della credibilità della massima istituzione giudiziaria cui demandiamo un importantissimo compito per la tenuta della democrazia come la lotta alla mafia.
Partiamo dai punti fermi, ovvero le precisazioni formulate dal comandante della Guardia di finanza, Andrea De Gennaro, ascoltato in Commissione parlamentare antimafia. Il generale ha evidenziato che a verificare l’operato del tenente Striano doveva essere colui che gli assegnava il lavoro e quindi il sostituto procuratore antimafia Antonio Laudati e non certo il comandante del nucleo di polizia valutaria; precisando che a nulla rileva che il finanziere avesse fatto migliaia di accessi dai sistemi di polizia tributaria, visto che prima del settembre 2022 non poteva fisicamente farlo altrove.
All’audizione ufficiale si sono aggiunte, inopinatamente, le dichiarazioni a mezzo stampa dei due principali indagati che hanno ritenuto di non sottoporsi alle domande del procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Entrambi i racconti ci consegnano una versione dei fatti per molti versi convergente, che alimenta ancor più interrogativi.
Cercando il più possibile di non eccedere nel tecnicismo, il primo aspetto che emerge è che le attività di estrapolazione delle informazioni ora oggetto di indagine erano svolte ordinariamente, specificando che l’estrapolazione dei dati non avveniva mai all’interno di vere e proprie indagini – ovvero nell’ambito di una precisa fase procedimentale espressamente prevista dal codice di procedura penale, con specifiche garanzie prevista per il soggetto attenzionato dall’autorità giudiziaria –, ma nell’ambito di ciò che i protagonisti chiamano dossier pre-investigativi. D’altronde la DNA non può svolgere indagini direttamente: le è affidato il compito di coordinare quelle svolte dalle diverse procure territoriali al fine di garantire una visione d’insieme necessaria per fronteggiare fenomeni complessi come la mafia e il terrorismo. Le centinaia o migliaia di accessi abusivi al sistema informatico in violazione della riservatezza dei singoli cittadini sarebbero pertanto avvenuti nell’ambito di un’ampia prassi in virtù della quale si procedeva abitualmente, in totale assenza di una qualche notizia criminis che li giustificasse.
Prendendo quindi per buono quanto affermato a mezzo stampa dai principali protagonisti della vicenda, queste pre-indagini non erano affatto clandestine, ma erano parte dell’attività per così dire “istituzionale” della struttura investigava della DNA che, ricordiamolo, dal 2015 ha aggiunto il compito di contrasto al terrorismo.
Intendiamoci, quanto appena descritto non deve di per sé sconvolgere, anzi. Ciò che colpisce è piuttosto la totale assenza di controlli e di precisi paletti, a fronte di un potere che è quanto mai penetrante e invasivo. Anche il lettore meno scafato ben comprenderà che siamo in presenza di verifiche compiute in una zona grigia. Secondo quanto ha detto Striano, esse si realizzavano in assenza di un qualunque verbale, ma erano conosciute da tutta la catena gerarchica.
A fronte di ciò sorge la più viva speranza che tutto ciò sia presto smentito dalle indagini in corso, avendo se non altro già la certezza, vivaddio, che queste presunte prassi siano state già fortemente contrastate dall’attuale procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo. Certo, va ribadita a gran voce la necessità che, al tempo in cui la tecnologia informatica consente agli investigatori di radiografare le viscere della democrazia, si metta mano alle regole e soprattutto si fissi con chiarezza la catena di responsabilità, a fronte del deprecabile, sebbene molto umanamente comprensibile, scaricabarile cui invece stiamo assistendo.
Laudati è stato negli anni anche consigliere del presidente Napolitano, ha ricoperto incarichi di primissimo rilievo; se solo una piccola parte di responsabilità fosse a lui concretamente addebitabile, saremmo costretti ad ammettere che il sistema è davvero marcio nelle sue fondamenta.
Tuttavia, egli, allo stato, non solo si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma neppure si è presentato davanti al procuratore di Perugia, limitandosi a dire, a mezzo stampa, di non aver mai effettuato accessi a sistemi informatici e di non aver mai avuto alcun rapporto, neppure di conoscenza, con i giornalisti che risultano indagati, precisando che, nei casi contestati nell’invito a comparire, egli si era limitato a delegare al gruppo SOS della DNA approfondimenti investigativi, in piena conformità alle leggi, alle disposizioni di servizio e, si badi bene, sotto il pieno controllo del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo.
Ma allora perché non esibire tali ordini di servizio? Se Laudati fa riferimento alle esigenze investigative, nell’esclusivo interesse dell’ufficio, perché non tira fuori le carte? Quegli ordini di servizio potrebbero stroncare sul nascere tutti i timori e le preoccupazioni che si stanno alimentando in queste settimane. Ordini di servizio che dovrebbero essere facilmente reperibili dall’autorità giudiziaria procedente e anche da quella politica, ovvero la Commissione parlamentare antimafia, che per la verità, investita prima per volontà del procuratore Melillo e confermata nel ruolo per volontà della premier, non sembra brillare nell’affrontare ciò che resta una brutta gatta da pelare. Francamente, la doppia indagine parallela fra autorità giudiziaria e Commissione antimafia non pare la soluzione più opportuna, ma se la seconda deve continuare ad occuparsi della vicenda, con tutte le riserve del caso, perché procede con tanta cautela invece di convocare, ad esempio, proprio Laudati e Striano?
Da semplici cittadini, non possiamo far altro che aspettare che l’indagine faccia il suo corso e che il procuratore Cantone, abile investigatore, sbrogli la matassa, mentre la politica potrebbe più opportunamente preoccuparsi di operare la risistemazione delle regole procedimentali che consentano il regolare sviluppo delle pre-indagini di cui, in ogni caso, da domani, dovranno tenere conto i manuali di procedura penale da far studiare ai nostri studenti di giurisprudenza. Ai quali mi sentirei comunque di rivolgere l’invito di prepararsi leggendo quei giornali a cui gli indagati hanno affidato a loro le rispettive difese. Non potendo fare a meno di notare che proprio loro – ovvero un pubblico ministero e un ufficiale della polizia giudiziaria – che pure rappresentano la parte pubblica del processo, non hanno ritenuto di potersi fidare dell’autorità giudiziaria procedente per dimostrare la loro innocenza. Chissà perché dovrebbero poi farlo i cittadini normali.
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