L’Onu ha chiesto il cessate il fuoco a Gaza, ma la risoluzione è passata perché gli USA non hanno esercitato il diritto di veto, non proteggendo per una volta Israele. Alla fine, potrebbe restare sulla carta in quanto non vincolante. O forse, spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire, potrebbe aprire a una nuova risoluzione, questa volta più stringente nei termini di attuazione, che porti finalmente a far tacere le armi. Il documento votato all’ONU, intanto, ha incrinato un po’ i rapporti USA-Israele. Anzi, a volte l’amministrazione Biden sembra muoversi per mettere in difficoltà Netanyahu, dando l’impressione di puntare a un cambio della guardia nel governo di Tel Aviv.
La risoluzione dell’Onu che prevede il cessate il fuoco può cambiare la situazione a Gaza?
Sono perplesso. Nonostante l’invito a proseguire con il cessate il fuoco anche in seguito, l’hanno legata al mese di Ramadan, iniziato il 10 marzo, e siamo già a metà di questo periodo. La seconda perplessità è relativa al fatto che da subito si è scatenata una bega sull’interpretazione tra i membri del Consiglio di sicurezza. L’ambasciatrice USA, Linda Thomas Greenfield, sostiene che non sia vincolante. C’è un distinguo: si parla di risoluzione moralmente vincolante ma non legalmente. Qui crolla tutto l’edificio. Dobbiamo vedere sul terreno se verrà implementata o meno da chi di dovere. Si diceva, ad esempio, che per attuarla Hamas potrebbe liberare un ostaggio per dare l’occasione a Israele di fare la sua parte. Israele, però, ha già detto di no a questo modo di procedere. La reazione del ministro degli Esteri, Israel Katz, d’altra parte, è stata molto dura: ha sostenuto che a questo punto è stato un errore non invadere Rafah. Chi in Israele sta dichiarando che non è il caso di scatenare una polemica contro gli USA in questo momento non conta, a partire da Yair Lapid, capo dell’opposizione, per finire con Ehud Barak, ex primo ministro, e Tzipi Livni, ex ministro della Giustizia.
Intanto, Israele ha annullato il viaggio di una sua delegazione che doveva recarsi negli USA per discutere dell’attacco a Rafah. Una reazione che può portare alla rottura con gli americani?
Il viaggio è saltato ma è stato mantenuto l’incontro tra i ministri della Difesa dei due Paesi. Non è una situazione netta. Probabilmente Netanyahu verrà invitato a parlare davanti al Congresso. Non sembra che ci sia l’intenzione di scatenare una crisi diplomatica. Biden è stato accusato di aver abbandonato l’alleato per questioni elettorali, per recuperare il voto degli arabi americani; in realtà si sono astenuti, dicendo che comunque quanto detto nel documento ONU non è vincolante.
La risoluzione, quindi, ha un significato politico, ma potrebbe non cambiare le cose?
Secondo me non cambierà niente. Le incursioni dell’IDF stanno continuando. A nord di Ramallah, nel campo profughi di Balata, in Cisgiordania, è stata addirittura colpita la sede di Fatah: non quella di Hamas, ma di Fatah. Non so più come interpretare questi gesti: gli israeliani provocano la parte palestinese che dovrebbe essere loro amica. Continuano anche a lanciare gli aiuti dal cielo, provocando la morte dei civili che si buttano nell’acqua per prenderli. Dodici persone sono annegate per questo e altri sei sono state calpestate. A lanciare i beni dal cielo sono la Giordania e la Gran Bretagna, ma costa sette volte tanto l’invio dei camion attraverso i valichi.
Per mettere in pratica la risoluzione ci vorrebbe una trattativa, mentre la delegazione di Israele se ne è andata dal tavolo dei colloqui per la tregua in Qatar. Come si fa a definire quali devono essere le procedure?
Il tavolo della tregua continua: non ci sono più i ministri, i capi dei servizi segreti, però ci sono le équipes di tecnici che proseguono il lavoro. Non ci sono progressi, ma si va avanti a trattare. Il segretario generale dell’ONU, Guterres, ha detto che la risoluzione va messa in atto; però, se non si individuano le modalità di attuazione, si finirà per lasciare passare il tempo senza che venga realizzata.
Quali strumenti si possono adottare?
I lanci dei viveri dagli aerei sono consentiti dagli israeliani, che vengono messi a conoscenza delle rotte per evitare incidenti. Per questo, i bombardamenti dal cielo sono stati sospesi, ma il resto dell’attività continua. Se ci fosse la volontà di dare seguito a quanto stabilito dalle Nazioni Unite, basterebbe smettere i bombardamenti da una parte e liberare qualche ostaggio dall’altra. Ma nessuna delle due parti ha intenzione di farlo.
Il governo Netanyahu attraversa un momento difficile: il ministro Sa’ar lascia perché non è entrato nel gabinetto di guerra, Benny Gantz minaccia la stessa cosa perché in disaccordo sull’esenzione dal servizio militare degli ultraortodossi Haredi, Ben Gvir è in disaccordo con il ministro della Difesa, Yoav Gallant, sulla possibile guerra al Libano. L’esecutivo è sempre più in crisi?
Ho l’impressione che qualcosa stia scricchiolando nel governo Netanyahu e che tutto sia cominciato con la visita di Gantz negli USA, che ha irritato il premier. Da allora, l’amministrazione americana sembra stia cercando di muovere le sue pedine per far cadere il primo ministro. Gli USA non vogliono prendersi la responsabilità diretta, ma mandano dei segnali, incoraggiano le dimissioni, le critiche. È un’impressione che deve essere confermata perché in altre occasioni sembra invece che alternino prese di posizioni più decise nei confronti di Netanyahu ad altre più soft per cercare comunque di tenere i rapporti.
L’astensione USA sulla risoluzione per il cessate il fuoco può essere vista, quindi, come un gesto per mettere in difficoltà il premier?
Potrebbe essere interpretato come uno di questi gesti, ma se poi la risoluzione non è vincolante non lo metti veramente in difficoltà. E poi allora perché gli americani hanno messo il veto alle risoluzioni precedenti? Non tutto rientra in questa spiegazione dei fatti. Certo è che Israele in quasi sei mesi non ha liberato gli ostaggi e non ha cancellato Hamas, dovrebbe chiedersi fino a quando vuole continuare, qual è l’obiettivo. In arabo c’è un proverbio: “Mi piaci, o braccialetto mio, ma non quanto il mio polso”. Alla fine gli interessi americani devono avere la priorità; se Netanyahu trascina nel fallimento Biden, il presidente lo deve mollare.
Il segretario di Stato USA, Anthony Blinken, dice che per Rafah ci sono alternative all’intervento militare prospettato da Israele. Biden, dal canto suo, sembra mettere in conto un possibile freno nella consegna delle armi. Anche qui i due Paesi sono ai ferri corti?
Biden ha mandato 100 carichi di armi, solo 2 con il permesso del Congresso. USA e Israele dovevano vedersi per discutere sul da farsi a Rafah, su cui l’invito ufficiale americano è di non operare un’offensiva militare. Anche Trump ha detto che Israele dovrebbe porre fine alla guerra. Le critiche da oltre oceano cominciano ad arrivare da una parte e dall’altra, dai democratici come dai repubblicani.
Verosimilmente cosa potrebbe accadere allora adesso, l’invito al cessate il fuoco della risoluzione cadrà nel vuoto?
Ripeto, la mia impressione è che non cambierà niente, la risoluzione però potrà fare da apripista a un secondo pronunciamento dell’ONU che darà indicazioni più precise, senza minacciare l’uso della forza, su come si devono comportare le parti in causa. D’altra parte è successo anche in passato che le risoluzioni non venissero rispettate. Rimane la questione di immagine, Netanyahu sa che anche se si tratta solo di una raccomandazione l’opinione pubblica internazionale, se non la vedrà applicata, se la prenderà con Israele.
Ma allora, vista da questa angolatura, la mancata opposizione del veto potrebbe essere davvero una mossa di Biden per mettere in difficoltà il primo ministro israeliano senza doversi esporre più di tanto?
Può darsi. Il dibattito che ne scaturirà nel governo israeliano è una questione interna che però potrebbe sortire un effetto non sgradito agli Stati Uniti, mettendo in difficoltà Netanyahu e aprendo la prospettiva di una eventuale crisi di governo. Anche se poi l’esecutivo rimarrebbe in carica per il momento in vista di nuove elezioni.
(Paolo Rossetti)
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