La Commissione Affari costituzionali del Senato ha varato la riforma del cosiddetto “premierato” all’italiana dopo un dibattito surreale e privo di consistenza, perché non svolto preventivamente e, al momento finale, definito da un emendamento sostitutivo presentato dal Governo.
Il testo approvato è a dir poco imbarazzante dal punto di vista costituzionale. Si sostituisce solo in parte l’attuale articolo 92 della Costituzione, cercando di mantenere formule e riti già presenti, come la nomina del Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, dei ministri, affidata al Presidente della Repubblica, il permanere della fiducia delle Camere, secondo lo schema classico della forma di governo parlamentare.
In realtà, con la proposta di revisione, i significati politici e costituzionali cambiano del tutto, non solo perché “il Presidente del Consiglio (sarebbe) eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni, per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi”, ma anche per l’aggiunta di altre disposizioni come quella che “le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente”. Senza contare che, sorprendentemente, nel nuovo articolo verrebbe inserito un comma relativo alla legge elettorale delle Camere. Infatti, nel comma 3 del nuovo articolo 92 si leggerebbe che “La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività”.
Pur in assenza della legge elettorale, i dati appaiono ormai chiari e con essi anche la vera funzione di questa riforma costituzionale. Ma procediamo con ordine.
La revisione proposta non ha nulla del vero premierato inglese e neppure del cancellierato tedesco, per indicare le forme di governo “neoparlamentari”, espressione con la quale si intende esattamente che l’elettore vota per i propri rappresentanti nel collegio o nella circoscrizione, ma nello stesso tempo – per effetto di un complesso sistema di convenzioni costituzionali che ogni sistema politico-costituzionale si è dato – sceglie anche il programma di governo e di fatto il premier o il cancelliere.
Cosa accadrebbe, allora, se le modifiche proposte dovessero essere definitivamente approvate e avallate dal corpo elettorale? Gli elettori molto concretamente sceglierebbero direttamente il Presidente del Consiglio, mentre la rappresentanza, cioè le Camere, sarebbe una mera conseguenza. Lo schema neoparlamentare entro cui si dovrebbe muovere il cosiddetto premierato verrebbe realisticamente capovolto e ciò mostra che l’intento non è tanto quello di menomare le prerogative del Capo dello Stato, che pure sono intaccate, quanto soprattutto di sottomettere definitivamente il Parlamento.
L’idea democratica alla quale la Carta costituzionale ha dato corpo passava per la centralità del Parlamento inteso come sede della classe politica istituzionalizzata chiamata a guidare il Paese con la discussione, il confronto tra maggioranza e opposizione e l’approvazione delle leggi. Sempre il Parlamento formava la maggioranza e faceva e disfaceva i governi attraverso il voto di fiducia e le varie forme di sfiducia possibili oltre a quella votata in aula. Insomma, un Parlamento che definiva l’azione di governo affidandola ai leader dei partiti di maggioranza, ed era compito di questi, infatti, assicurare la stabilità di governo, rispettando ruolo e funzione del Parlamento.
Così in fondo funziona ovunque, dove la forma di governo parlamentare si è affermata storicamente; così è stato in Gran Bretagna, dove il partito conservatore – e non i laburisti – decretò la fine della Thatcher, durante una legislatura in corso; così è stato anche in Germania, quando i liberali voltarono le spalle a Helmut Schmidt, abbracciando l’alleanza con la CDU-CSU.
La riforma del premierato proposta l’altro ieri con l’approvazione dell’emendamento del Governo, perciò, non rispetterebbe il primato del Parlamento sull’esecutivo, ma consentirebbe ai leader dei partiti di dare un colpo di grazia definitivo alla rappresentanza che questo dovrebbe esprimere, portando a segno quanto non riuscì a Matteo Renzi nel 2016.
Si tratta di un percorso lungo che cominciò già nel 1994, quando esplose il populismo berlusconiano. Berlusconi riempì le liste di persone sconosciute al territorio e per di più in buona parte prive di esperienza politica, tanto che nel 1996, alla nuova tornata elettorale, li cambiò in massima parte. Ai parlamentari da quel momento in poi si richiese non esperienza politica, ma obbedienza assoluta al capo. Quando la riforma della legge elettorale del 2005 ripropose le liste senza il voto di preferenza, questo passaggio dal fare politica all’obbedienza politica apparve chiaro anche alle forze di centrosinistra, che costruirono le liste esattamente allo stesso modo, puntando sul carisma di Prodi.
Il resto è storia recente. Di fronte ai due schieramenti distanti nella stessa misura dagli elettori, nel 2013 si pose in modo dirompente il M5s, grazie al quale Grillo riempi il Parlamento di “utili idioti”, che non dovevano nemmeno parlare; e così ancora nel 2018 il M5s riuscì ad ottenere un consenso tale che dovette per forza formare il Governo, una responsabilità della quale Grillo e i parlamentari del M5s avrebbero fatto volentieri a meno.
In tutto questo tempo il Parlamento perde sostanza costituzionale, è sempre meno sede della rappresentanza del corpo elettorale, complici leggi elettorali penose politicamente e giuridicamente incostituzionali; il Parlamento non discute più, non fa leggi, ma converte decreti legge, adottati dal Governo con fonte ordinaria della legislazione; e così si attesta la sua quasi inutilità, per cui se ne può ridurre la consistenza, e non sorprende che quasi tutti abbiano votato questa riforma; e prima o poi – magari dopo questa riforma dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio – si dirà che due Camere sono troppe e che una sarà più che sufficiente, purché sia assicurato il vitto insieme all’alloggio.
Ecco, è chiaro cos’è la riforma dell’articolo 92 della Costituzione: il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia per acclamazione, per la quale questa forma di governo si definisce come forma di governo del Presidente del Consiglio.
Poi, con la riforma del premierato, una volta eletto il Presidente del Consiglio dei ministri, il Parlamento deve essere composto in modo assolutamente conseguente: innanzitutto, elezioni contestuali (Presidente e Camere) e con voto rigorosamente congiunto; premio di governabilità, in modo da non avere seccature durante la legislatura, e candidati rigorosamente scelti dai leader, in modo che gli eletti possano essere delle figure “ombra”, non visibili e non in grado di nuocere.
Ora, di questi modelli di democrazia per acclamazione, come la riforma del premierato, ve ne sono in giro per il mondo, ma non in Europa. Anche gli italiani ambirebbero a questa?
Ciò che sorprende è che l’attuale maggioranza aveva chiesto al corpo elettorale di esprimersi a favore del presidenzialismo e il corpo elettorale così si era espresso. Soltanto che, invece di un sano ed equilibrato presidenzialismo che avrebbe rafforzato anche il Parlamento, oggi ci ritroviamo di fronte ad una riforma del premierato che punta all’acclamazione e mette in crisi la funzione stessa della rappresentanza. Carl Schmitt, nel suo saggio del 1926 su La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, aveva già visto la fine del Parlamento e la funzione dell’acclamazione come forma di un certo tipo di democrazia, ma sappiamo tutti come finì. Ci stiamo avviando verso un déjà vu?
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