Tutto si tiene: se la politica si fa sui social, se il consenso si conquista o si perde con i like, nell’opposizione italiana al centrodestra di governo Giuseppe Conte e i suoi nuovi Cinquestelle sono più forti di quel che resta del Pd. E dunque il “campo largo” o lo guidano loro, attaccandosi dietro, a mo’ di rimorchio, l’antico partitone per fare massa critica, oppure non se ne parla. E per ora, con tutta evidenza, non se ne parla.
I “capponi di Renzo” dell’opposizione sembrerebbero essersi formalmente divisi sul caso del voto di scambio a Bari, ma quella è stata solo una bega occasionale. La sostanza è che l’unico collante che può sostenere, alle amministrative come – anzi, a maggior ragione, alle future, lontanissime politiche del 2027 – l’alleanza tattica tra Pd e Cinquestelle è l’antagonismo contro il centrodestra. Non c’è una vera divergenza ideologica, tra i due partiti, per la semplice ragione che ideologicamente i dioscuri dell’opposizione sono gorilla nella nebbia: come si fa a dividersi su idee confuse?
C’è invece una palese e chiarissima spaccatura sulla leadership. Quella della Schlein semplicemente non esiste: o meglio, è esistita al momento di scippare la segreteria a un uomo d’apparato competente e metodico com’è Bonaccini, che avrebbe se non altri saputo ripercorrere i sentieri consueti del partito. Ma non ha alcun riscontro nella base degli iscritti – quella che resta – e pochissimo nell’elettorato.
Quella di Conte, invece, piaccia o meno, è una leadership palpabile. L’uomo è stato per tre anni tutti i giorni in televisione, anche se a parlare di cose tristi, ma almeno le parole ha saputo usarle bene, guidato da un bravo spin-doctor, per quanto discutibilissimo nello stile.
Il paradosso beffardo – oro puro per Giorgia Meloni e la sua diversamente sgangherata maggioranza – è che anche gli altri pezzi dell’opposizione sono agli stracci. Calenda da una parte e Renzi con Bonino dall’altra, incompatibili; e perfino la vecchia alleanza Verdi-Sinistra spaccata, con Bonelli aggregato al Pd e Fratoianni a Conte.
Fisiologicamente una qualche intesa prima o poi si riproverà a costruirla, ma a Conte conviene risedersi al tavolo con il Pd dopo le Europee, se è vero – com’è vero – che alcuni sondaggi iniziano a considerare possibile il sorpasso, a Strasburgo, dei Cinquestelle sul Pd. E d’altronde: parafrasando uno di quelli che gli eredi del Partito comunista italiano dovrebbero tenere in maggior considerazione, Antonio Gramsci, il Pd oggi soffre sia i mali del post-comunismo sia quelli del suo mancato sviluppo. Ossia: se post-comunismo doveva significare, com’è stato, archiviazione del mito di un’alternativa di “modello di sviluppo”, è stato parziale, perché i retaggi rimangono nell’incomprensione delle dinamiche profonde della globalizzazione finanziaria, sia nei suoi (pochi) preghi che nei suoi (tanti) difetti.
Il mancato sviluppo del post-comunismo consiste nel non aver definito una visione di governo dell’interesse pubblico, e soprattutto dell’economia, che non risenta più dell’utopia della collettivizzazione dei mezzi di produzione, ma che ad esempio faccia pace con i principi dell’economia sociale di mercato e del sistema misto che ha fatto grande l’Italia. Su questa materia, gli economisti di area Pd farfugliano, sono confusi, si oscilla tra il liberismo puro, alla Chicago Boys, e la nostalgia di Peppone, quello che lottava contro Don Camillo.
D’altra parte i Cinquestelle sono ancora giovani e non hanno ancora accumulato sul groppone la zavorra di disinganni, tradimenti, disillusioni e bugie che gravano sulla schiena rossa. L’abolizione della povertà, millantata da Di Maio, sarebbe da sola un peccato mortale da espulsione, ma – lo vediamo ogni giorno – è stata perdonata. Alle belle promesse fa piacere credere, ma ad arrabbiarsi quando vengono tradite ci si accorge di essere stati totalmente fessi a prenderle sul serio, e si dissimula il risveglio…
Il disastro incrociato del Superbonus e del Reddito di cittadinanza – panem et circenses per il ceto medio il primo e per la plebe meridionale il secondo – non sono pervenuti nella coscienza di un elettorato “di protesta” che è semplicemente stufo dell’ambiguità ormai quasi strutturale di un partito, il Pd, cresciuto all’opposizione negli anni Settanta e Ottanta ma coltivando il traguardo del compromesso storico; di un partito finalmente approdato al potere con D’Alema nel ’98 e quindi partito col piede sbagliato nella massima responsabilità gestionale, ben presto seppellita dall’incapacità e da altro, anche peggiore. E dunque se vogliono votare contro Meloni, non possono che votare Cinquestelle.
E allora? Allora il Pd ha all’attivo soltanto ancora un po’ di “goodwill”, avviamento commerciale da seggio elettorale. È l’unica benzina del suo serbatoio. I Cinquestelle invece, hanno qualcosa in più; hanno un po’ di anatema addosso per le scemenze sulla nomenclatura, alla Toninelli per capirci, ma sono in tanti gli elettori pronti a cancellarlo. E vogliono giocarsi la carta della resurrezione.
Per questo a parte qualche colpetto tattico – vedi alla voce Regione Sardegna – il tempo gioca per Conte. A meno che il partitone archivi l’infortunio Schlein e torni a fare politica in modo quadrato, chiaro, e possibilmente meno contraddittorio.
Non è questione di salario minimo, compagni: né di magistratura impunita. Occorre uno Stato che funzioni e che tuteli i più deboli, e solo loro. Non è difficile, potete farcela. Ricordatevelo: vi si vota per tutelare i diritti sociali, prima e piuttosto che quelli civili.
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