Si è creata in questi giorni una convergenza di particolare densità etica e giuridica, che impone ai cittadini europei di far sentire la loro voce per dire due no chiari e distinti. Due no che interpellano la responsabilità politica e sui quali vale la pena riflettere in prossimità del voto di giugno. Il centrosinistra, attualmente presente nel Parlamento europeo, nel luglio del 2022 aveva presentato una mozione chiedendo di inserire il “diritto all’aborto” nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non avendo ottenuto il risultato sperato, ci riprova ora, prima dello scioglimento del Parlamento, in vista del voto del 6-9 giugno. Ci riprova alla luce di quanto accaduto in Francia il 4 marzo, poco più di un mese fa, quando Macron ha imposto al Parlamento di inserire l’aborto come diritto fondamentale nella Costituzione francese.
L’attuale risoluzione del Parlamento europeo di per sé non ha alcun valore giuridico, ma l’11 aprile sarà ugualmente posta ai voti, sperando che il testo venga approvato, data l’ampia maggioranza che lo sostiene. Il centrosinistra sa bene che non potrà diventare realtà, perché occorrerebbe l’unanimità dei 27 Paesi, cosa attualmente impossibile. L’approvazione però potrebbe determinare un’ulteriore spinta nell’opinione pubblica, come accade quando si contrappongono il diritto alla vita del bambino e la libertà della donna ad autodeterminarsi. Due diritti fondamentali, ma di diverso peso sul piano etico e normativo, dal momento che la tutela della vita di un altro rappresenta il limite naturale per chi desidera riaffermare la propria volontà e la propria libertà. Ma porre l’accento sui diritti della donna, troppo spesso sottovalutati, è parte integrante della campagna elettorale della sinistra. E pur essendo vero che il cammino della donna verso un pieno riconoscimento dei suoi diritti è ancora lungo, vale la pena insistere che il superamento del gender gap va ben oltre il non-diritto all’aborto.
Per altro la mozione, mentre esalta senza limiti la libertà della donna, crea un pericoloso cortocircuito per l’obiezione di coscienza del medico, la cui libertà viene messa in discussione. In ogni caso è utile ricordare che una delle sfide culturali con cui dovrà misurarsi il Parlamento europeo dopo il 9 giugno è ancora una volta l’interpretazione dell’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali: cosa debba intendersi oggi per “diritto all’integrità della persona” e in che misura affittare il proprio utero metta a rischio tale integrità. L’articolo 3 infatti invita a riflettere anche su quanto è emerso nella Conferenza internazionale per l’abolizione universale della maternità surrogata, che si è tenuta in questi giorni a Roma, alla LUMSA. Un evento che parte dalla dichiarazione di Casablanca, firmata da esperti di diverse discipline scientifiche di 75 nazionalità diverse e vuole spingere la questione fino al Parlamento europeo.
In Italia, come è noto, la maternità surrogata è un reato, come prevede la legge 40, per cui l’utero in affitto è un grande mercato di bambini, che mette a rischio sia l’integrità della donna che quella del bambino. Se l’aborto non può essere presentato come “valore comune” per tutti gli Stati membri dell’UE, neppure l’utero in affitto può essere presentato come un diritto. E se c’è chi rivendica il diritto di ogni bambino a vivere, c’è anche chi rivendica il diritto di un bambino ad essere concepito, senza diventare merce di scambio. E ciò investe il Parlamento europeo nella doppia direzione della democrazia ascendente e della democrazia discendente. Chi pretende di mettere l’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea viene meno alla logica della democrazia discendente, perché cerca di imporre un falso diritto, una norma ingiusta o per lo meno quanto mai discutibile e divisiva. Nel caso in cui non si riconoscesse il diritto a far condannare come reato l’utero in affitto, si negherebbe il diritto ad una democrazia ascendente, che vuole farsi ascoltare partendo dal senso comune e della sensibilità generale.
Sorprende in entrambi i casi il coraggio che emerge da una Europa dei popoli, che crede nei valori che professa e si batte perché vengano riconosciuti, mentre c’è una Europa di alcune, tante, troppe, lobby che pretende di cambiare il senso comune dei cittadini europei attraverso l’imposizione di norme ingiuste che appaiono tali anche al senso comune.
La dichiarazione di Casablanca promuove la messa al bando della maternità surrogata, perché nella maggioranza dei casi sfrutta la donna, approfittando della sua povertà. In entrambi i casi servono strumenti giuridici che l’Europa deve elaborare per imparare a dire no: per non inserire l’aborto nella Carta dei diritti fondamentali e per abolire la maternità surrogata. È importante che i cittadini europei comprendano fino a che punto il Parlamento europeo può smontare la struttura etico-normativa dell’Europa e fino a che punto invece potrebbe ricostruirla con maggiore rigore e solidità. L’alternativa a cui è sottoposto un bambino in molti casi non può essere quella di morire oppure diventare oggetto di un contratto, come una qualsiasi merce. E la maternità surrogata non è un gesto di altruismo, ma una vera e propria forma di moderna schiavitù della donna, un mercato basato sullo sfruttamento delle donne. L’antitesi completa, paradossalmente, di quanto chiedevano le femministe della prima ora che volevano liberare le donne dalla maternità, mentre ora tornano a rinchiuderla in una bolla che di materno non ha più nulla. La dimensione globale della maternità surrogata richiede una risposta internazionale e una convenzione multinazionale: indispensabili per abolire definitivamente una pratica che fa mercimonio di madri e bambini. Il Parlamento europeo deve saper dire no all’aborto come diritto fondamentale e no alla maternità surrogata, nel pieno rispetto della vita e della dignità delle donne e dei bambini.
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