Nella mia lunga esperienza di docente di italiano negli istituti tecnici ho sempre privilegiato la lettura ad alta voce del testo letterario, per due diversi ordini di ragioni. Innanzitutto, nell’introdurre la mia materia, che gli studenti hanno già ampiamente praticato nei cicli di scuola precedenti, mi piace partire dal testo. Questo perché da un lato il testo – con le sue caratteristiche imprescindibili di coerenza, coesione e compiutezza – è un’unità comunicativa naturale e facilmente identificabile; dall’altro, soprattutto nella produzione scritta e orale, esso presenta numerosi elementi di difficoltà che spesso gli allievi non sanno gestire nemmeno nelle classi terminali. La fiaba, da questo punto di vista, è facilitante perché ha una struttura codificata, cioè un inizio e una fine immediatamente individuabili, racchiude sempre un evento in sé concluso ed è accessibile a chiunque, per quanto offra livelli interpretativi di diversa complessità, il che la rende interessante a qualsiasi età e per qualsiasi tipologia di lettore.
Ma c’è una seconda ragione. La fiaba è presente in qualsiasi tipo di cultura ed ha un’origine remota. Possiamo dire che costituisca la prima forma letteraria, precedente addirittura l’invenzione della scrittura. Quando i nostri lontanissimi antenati impararono a controllare il fuoco, le ore di veglia cominciarono a protrarsi oltre il tramonto. Millennio dopo millennio il bisogno di una narrazione che affrontasse le grandi questioni della vita – il senso della nascita, il valore della fatica e del sacrificio, il perché del dolore, la speranza di sopravvivere oltre la morte – prese lentamente prima le forme del mito e poi quelle della fiaba.
La fiaba quindi si pone all’inizio della storia della letteratura, ma anche all’inizio dell’avventura conoscitiva di ciascuno studente. È presumibile – ed auspicabile – che ogni ragazzo abbia potuto incontrare le fiabe già nella primissima infanzia, attraverso la lettura da parte dei genitori o dei nonni e che ne abbia un ricordo positivo. Infatti la lettura ad alta voce è una forma preziosa di accudimento: rafforza le relazioni, stimola lo sviluppo cognitivo e soprattutto educa ad un ascolto che non sia superficiale e consumistico.
Riproporla durante l’adolescenza, quando il corpo cambia forma e ne assume una del tutto nuova, spesso non immediatamente armonica, perciò non rispondente alle proprie aspettative o ai cliché indotti dai mass-media, anche se inizialmente può suscitare nel ragazzo sconcerto e una certa resistenza, lo aiuta a prendere coscienza di sé, a sentirsi meno solo e meno “sbagliato”.
Va da sé che non tutte le fiabe sono idonee a questo scopo. Personalmente prediligo quelle di Hans Christian Andersen e, fra tutte, quelle che potremmo definire “di agnizione”, perché descrivono il cammino del protagonista alla ricerca della propria identità. In esse anche lo studente più maturo, che magari comincia a interrogarsi sulla propria vocazione professionale (o sulla possibilità di una stabilità affettiva) nella misura in cui si lascia coinvolgere può trovare risposte, o quanto meno dare forma, alla propria incertezza e alle proprie inquietudini.
Il lavoro che illustrerò brevemente prende avvio da queste considerazioni ed è stato proposto all’inizio dell’anno ad una classe seconda di un istituto tecnico. Si trattava di un gruppo disomogeneo e piuttosto problematico, con un’alta percentuale di ripetenti che esprimevano apertamente o con un ostinato mutismo la propria rassegnazione nei confronti della scuola. Mi sono sentita ad un tempo provocata dalla loro fragilità e attratta dalla loro umanità e ho deciso di rilanciare, leggendo appunto delle fiabe.
Leggere ad alta voce è come siglare un patto: io ti consegno una parte di me attraverso un testo per me significativo e ti chiedo di verificare se può esserlo anche per te. Su questo è fondamentale non barare non solo con i piccoli, ma neppure nel triennio, quando i programmi prevedono che si affronti la storia della letteratura. E questo vale ovviamente anche per gli studenti.
A lettura ultimata non ho richiesto di analizzare il racconto secondo le consuete modalità suggerite dalla narratologia: per non rompere l’incanto che si era creato, ho invitato la classe a “reagire” all’ascolto della fiaba, facendo a sua volta della letteratura. Ciascun ragazzo avrebbe realizzato un testo scegliendo il genere testuale a lui più consono.
Ho così potuto constatare che tutti avevano ben chiaro che la fiaba, al pari delle migliori opere letterarie, dice molto di più di quanto possa apparire ad una lettura superficiale. E soprattutto che la fiaba (quanto meno quelle di Andersen che avevamo preso in considerazione) mentre parla di anatroccoli, di cigni, di pupazzi di neve, di sirenette, di rospi o di quant’altro, parla di noi e delle nostre esigenze più vere. Davvero può aiutare a mettere ordine nella propria casa interiore, o almeno a prendere in considerazione che è possibile farlo, che la realtà non ci è ostile.
Gli studenti avevano scoperto che si può usare un linguaggio immaginifico per esprimere una verità profonda, forse anche indicibile – come hanno fatto alcuni componendo delle poesie molto personali – e questa consapevolezza li avrebbe accompagnati negli anni successivi del loro percorso scolastico, in particolare nell’affronto della Commedia di Dante, che non a caso hanno amato più di ogni altro testo.
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