Il Nord Italia con 2,3 milioni di persone in meno nel 2040. La Lombardia -673mila, il Piemonte sotto di 493mila, il Veneto -387 mila. Lo scenario dipinto dalla Fondazione Nord Est lancia nuovamente l’allarme sul nostro futuro demografico. La previsione mette al centro dello scenario tre Regioni importanti per il loro contributo economico al sistema-Italia, tre aree che dovranno necessariamente fare i conti con un calo della domanda interna, degli investimenti e del risparmio e una riduzione degli affari nel mercato immobiliare.
Un punto di vista che, però, spiega Gian Carlo Blangiardo, già presidente dell’Istat, docente emerito di demografia nell’Università di Milano Bicocca, non deve far dimenticare che in realtà chi sente di più il calo demografico è il Mezzogiorno. Il problema accomuna tutte le Regioni d’Italia ma va contestualizzato in situazioni che, da Bolzano a Palermo, restano diverse. Per risolverlo, vanno coinvolte anche le amministrazioni locali e soggetti come le aziende. Ma anche i singoli, che devono sentire la responsabilità di sostenere chi ha figli, perché proprio loro sono il capitale umano su cui si costruisce la società del futuro.
Lo studio della Fondazione Nord Est pone il tema dello spopolamento del Nord Italia; esiste una questione demografica settentrionale?
La prospettiva di un calo della popolazione è presente ovunque, ma è particolarmente intensa nel Mezzogiorno: non è stato sostenuto da flussi migratori e di fatto è quello che rischia di più.
L’indagine punta in particolare su Lombardia, Piemonte e Veneto, tre fra le Regioni-locomotiva del Paese: un calo delle nascite lì fa sentire le conseguenze più che altrove?
Se fissiamo l’attenzione dal punto di vista territoriale su una certa area, possiamo parlare di un calo della popolazione in quelle aree. Anche le grandi Regioni del Nord subiranno un processo di diminuzione e invecchiamento della popolazione. Tutti sanno che è un fenomeno che esiste da tempo: fino a che ha trovato una qualche compensazione attraverso la corrente migratoria, interna o internazionale, in qualche modo si è attenuato. La prospettiva è che, se le migrazioni non saranno sufficienti a compensare questo crescente buco, saremo in difficoltà.
Perché il problema del calo demografico fatica a diventare una priorità? C’è ancora una sottovalutazione delle conseguenze che avrà sulla nostra vita?
La conoscenza di cosa deriva dal cambiamento in atto è una questione che è stata ampiamente analizzata per decenni, da trent’anni. Io ho scritto un libro nel 1990 che si intitolava Meno italiani più problemi? e in quel testo si parlava delle pensioni, della sanità, della scuola, persino dell’esercito, dei problemi abitativi, dei comuni interni che rischiavano lo spopolamento. Discorsi che sono stati fatti largamente anni fa dei quali non si è tenuto conto. In Lombardia, nel quinquennio 2020-2024, compiono 90 anni circa 130mila persone; se andiamo avanti di 30 anni saranno 250mila, il doppio. Ci vuole poco a immaginare le conseguenze per il sistema sanitario nazionale. In Italia, abbiamo almeno 800mila persone con almeno 90 anni, che saranno 2 milioni e 100mila nel giro di 50 anni; per il servizio sanitario sarà una pressione non da poco. Se poi nelle famiglie ci sarà un figlio unico, la rete familiare non esisterà o sarà molto debole. Dobbiamo intervenire per rendere queste realtà meno impattanti.
Chi devono essere gli attori del cambiamento? Almeno lo Stato in tutte le sue declinazioni, quindi oltre al governo centrale anche Regioni e Comuni? Chi altro?
Lo Stato deve essere il regista, dettare le regole e coordinare le attività. Ma ci sono gli attori locali che conoscono la situazione e le leve su cui agire: una cosa è intervenire in Sardegna, un’altra in provincia di Bolzano. Bisogna muovere le amministrazioni locali, il privato sociale ma lo stesso sistema delle imprese. Il welfare aziendale dovrebbe essere una modalità con la quale aiutare i propri dipendenti o cittadini sul territorio a risolvere una serie di problemi. Stiamo parlando di 387mila nati nel 2023; è un livello drammatico, non possiamo continuare così. La gente i figli li vorrebbe, se ci sono delle difficoltà prendiamone atto. È questione di lavoro, di soldi, di tempo a disposizione? Ci sono tante azioni che si possono realizzare e tanti attori che possono intervenire in questo e in altri campi.
Su cosa si può agire?
Penso alla valorizzazione delle persone non ancora giovanissime ma che possono dare ancora molto. Agiamo su paletti come la pensione: se non si tratta di portare sacchi di cemento e le persone hanno la testa che funziona, si dia loro una possibilità anche oltre i 65-67 anni. Una risorsa importante, che non sono solo i nonni. Queste persone possono aiutare le famiglie ma anche il sistema produttivo. Pensiamo anche alla condizione femminile: potremmo creare le condizioni perché le donne possano essere mamme e lavoratrici fornendo anche i contributi che tengono in piedi il sistema di welfare.
Le cose da fare sono tante, ma possiamo stabilire delle priorità, attingendo magari a modelli virtuosi interni (vedi la provincia di Bolzano) ed esterni al Paese?
Il modello francese ci può insegnare molto e si tratta anche di un Paese molto simile al nostro, senza grosse differenze dal punto di vista culturale, ma non c’è la soluzione magica. Bolzano ha il livello di fertilità più alto d’Italia, ma ha anche una mentalità un po’ “alla tedesca” che in altre parti d’Italia probabilmente non c’è: ci sono più denari. Bolzano è diversa da Cosenza. Dobbiamo cercare di capire cosa è meglio fare da una parte e cosa dall’altra, con l’obiettivo di rilanciare la vitalità di questo Paese facendo appello a tutte le risorse.
Se fosse un ministro con la delega all’emergenza demografica, cosa farebbe subito per cercare di risalire la china?
Non ho nulla di certo in termini di risultato. Direi di agire su più fronti, coinvolgendo i diversi attori. Il sistema delle aziende è importante da prendere in considerazione. Lavorerei sulla valorizzazione dello scambio generazionale tra le persone meno giovani e i giovani stessi. Non ci deve essere una guerra del giovane con l’anziano perché porta via un posto di lavoro, ma piuttosto un discorso di osmosi per la trasmissione delle conoscenze e per l’interazione. I target sono diversi, ma non si può puntare su uno lasciando da parte gli altri.
È una responsabilità che tutti devono prendere?
Ciascuno di noi deve capire che dalla soluzione del problema demografico deriva la qualità della vita del futuro. Dobbiamo accettare un cambiamento di atteggiamento nei confronti delle coppie che fanno i figli. Senza pensare che siano fatti loro e basta. Quei figli sono il capitale umano che, alla fine, aiuterà ad affrontare le problematiche di tutti. Bisogna sentirli un po’ come figli di tutti.
Nella UE, dal 2002 al 2022, le persone nella fascia di età fra 30 e 34 anni sono diminuite di 4,4 milioni. L’Italia da sola è diminuita di 1,3 milioni. Come mai siamo quelli che incidono di più in Europa su questo calo?
In Italia, rispetto ad altri Paesi, la caduta della natalità è stata precoce. Siamo un Paese che dal 1977 è sotto il livello di ricambio generazionale, meno di due figli per donna. Se andiamo indietro di 30 anni, arriviamo negli anni 90, tenendo presente che uno dei minimi di natalità è arrivato nel 1995. Paghiamo anche il fatto di aver precorso i tempi; siamo stati veloci a introdurre la “novità”.
(Paolo Rossetti)
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