Il board della Bce ha confermato nella riunione di ieri i tassi ai livelli massimi raggiunti a settembre 2023 e ha rinviato ai prossimi mesi ogni ipotesi di riduzione. Con le motivazioni di questa decisione sembra decisamente aver assunto i panni di San Tommaso: non crederà alla discesa dell’inflazione e non abbasserà i tassi sinché non avrà toccato con mano i dati Eurostat che siano in grado di confermare che il tendenziale è effettivamente rientrato entro il tasso obiettivo del 2%. Che a questo punto anziché tasso obiettivo dovremmo più correttamente etichettare come vero e proprio dogma, data la rigidità, in apparenza anche intellettuale, dei decisori europei.
Se da un lato è vero che in marzo il tendenziale nell’Euroarea dovrebbe essersi attestato al 2,4%, dunque quattro decimi al di sopra dell’obiettivo, dall’altro non si può ignorare come solo otto mesi fa, appena prima dell’ultimo aumento dei tassi Bce, esso fosse più che doppio rispetto ai livelli attuali, al 5,3%. E un anno fa era quasi triplo, al 7% in aprile, mentre a luglio 2022, quando la Bce iniziò ad alzare i tassi partendo dal livello zero, era all’8,9%, per poi salire sino al massimo del 10,6% nell’ottobre successivo. Da questo livello e sino all’attuale 2,4% l’inflazione europea ha recuperato ben il 95% dell’eccesso di aumento dei prezzi rispetto al tasso obiettivo, senza tuttavia che il board Bce abbia dato segno di comprendere che il fenomeno inflattivo è in via d’esaurimento.
In questo periodo, a fronte dell’inflazione che tendeva a spegnersi spontaneamente, le economie europee si sono invece fermate e la crescita economica si è azzerata. In tutto l’anno 2023 l’economia dell’Euroarea ha fatto solo un +0,4% di crescita, ma esso è frutto per intero del trascinamento dal 2022, in cui l’incremento del Pil reale era stato invece del 3,4%. Nei quattro trimestri del 2023 essa è rimasta complessivamente ferma, col livello del Pil reale del quarto trimestre persino lievemente inferiore a quello di un anno prima. Com’è possibile in questo contesto temere un’inflazione da domanda? Che è poi quella nei cui confronti la politica monetaria restrittiva dovrebbe essere efficace. Dov’è tutta questa domanda che farebbe correre i prezzi, ma nello stesso tempo tenendo fermo il Pil? Dev’essere una domanda alquanto burlona e invisibile alle statistiche, una domanda fantasma, proprio come gli spiritelli del film Ghostbusters.
Ma vediamo le motivazioni della scelta del board della Bce quale emerge dal comunicato stampa:
“Il Consiglio direttivo ha deciso oggi di mantenere invariati i tre tassi di interesse di riferimento della Bce. Le nuove informazioni hanno sostanzialmente confermato la sua precedente valutazione circa le prospettive di inflazione a medio termine. L’inflazione ha continuato a ridursi, soprattutto per effetto dell’andamento più contenuto degli alimentari e dei beni. Le misure dell’inflazione di fondo stanno perlopiù diminuendo, la crescita dei salari registra una graduale moderazione e le imprese stanno assorbendo parte dell’incremento del costo del lavoro con i loro profitti. Le condizioni di finanziamento rimangono restrittive e i precedenti rialzi dei tassi di interesse continuano a incidere sulla domanda, contribuendo al calo dell’inflazione. Tuttavia le pressioni interne sui prezzi sono forti e mantengono elevata l’inflazione dei servizi”.
Tranne l’ultimo periodo l’analisi è condivisibile, certifica la riduzione dell’inflazione e avrebbe dunque dovuto giustificare una prima riduzione dei tassi. Ma l’ultima affermazione rovescia l’analisi: le pressioni sui prezzi sono forti. Quali pressioni? E su quali prezzi si manifestano? Solo quelli dei servizi? Ma non è che sui servizi è arrivata per ultima rispetto alla manifattura la pressione dei passati alti prezzi energetici? E se non è questa la causa, qual è quella alternativa?
Il comunicato prosegue poi con una frase ancora più critica: “Se la valutazione aggiornata del Consiglio direttivo in merito alle prospettive di inflazione, alla dinamica dell’inflazione di fondo e all’intensità della trasmissione della politica monetaria accrescesse ulteriormente la sua certezza che l’inflazione stia convergendo stabilmente verso l’obiettivo, sarebbe opportuno ridurre l’attuale livello di restrizione della politica monetaria. In ogni caso, per determinare livello e durata adeguati della restrizione, il Consiglio direttivo continuerà a seguire un approccio guidato dai dati in base al quale le decisioni vengono definite di volta in volta a ogni riunione, senza vincolarsi a un particolare percorso di riduzione“. In sostanza il board della Bce sta affermando di essere certo che l’inflazione stia convergendo verso l’obiettivo, ma che per iniziare la riduzione dei tassi ha bisogno di “accrescere ulteriormente la sua certezza”. In pratica come San Tommaso.
Mettiamoci ora nei panni dei Governi i quali entro settembre prossimo dovranno presentare alla Commissione Ue le loro decisioni di politica fiscale. Tali decisioni saranno basate sulle previsioni di crescita macroeconomica le quali tuttavia dipendono dalle scelte di politica monetaria della Bce, la quale però dichiara di seguire un “approccio guidato dai dati”, ma in questo caso non i dati previsionali ma quelli effettivi, una volta resi disponibili dagli istituti di statistica. Dunque i Governi nel definire le previsioni macro dovranno necessariamente prevedere anche i comportamenti della Bce sui tassi, la quale però “non intende vincolarsi a un particolare percorso di riduzione”.
Cosa accadrebbe se i Governi dicessero alla Commissione Ue che “non intendono vincolarsi a un particolare percorso di riduzione” del disavanzo in rapporto al Pil dato che seguono un “approccio guidato dai dati” (sulla crescita economica) che però al momento non sono ancora noti?
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.