Un recente studio pubblicato sull’International journal of biological macromolecules condotto da ricercatori provenienti da diverse parti del mondo (USA, Canada, Regno Unito, ma anche Messico e Arabia Saudita) ha cercato di indagare il possibile potere cancerogeno dei vaccini ad mRna, tra i quali anche i famosi composti usati contro il covid. Uno studio, però, che non si prefigge di indagare specificatamente sul lavoro di Pfizer, Moderna o chi per loro, quanto sulla risposta che il nucleoside N1-metil-pseudouridina (usato per modificare l’mRna dei vaccini affinché non venga trascritto nel Dna umano) potrebbe causare sui tumori, soprattutto alla luce dei numerosi progetti in corso di vaccinazioni contro cancri di ogni tipo.
Partendo dalle conclusioni, secondo i ricercatori ci sono “prove convincenti” che una percentuale del 100% di N1-metil-pseudouridina all’interno dei vaccini “potrebbero stimolare lo sviluppo” dei tumori, pur sottolineando che di per sé “non provocano il cancro“. Non si tratta, dunque, di una reazione causa/effetto, quanto piuttosto di un fattore di stimolo per una condizione preesistente e, fino a quel momento, sopita; con l’ipotesi che gli stessi vaccini che veicolano l’mRna nel corpo possano anche rappresentare uno stimolo alle metastasi di un piccolo tumore che stava cominciando a danneggiare l’organismo.
Lo studio sull’mRna: “Se veicolato con i vaccini può sopprimere la risposta immunitaria del paziente”
I ragionamenti dei ricercatori sono partiti dall’opinione dei loro colleghi, premi Nobel, Katalin Karikó e Drew Weissman che in un loro studio hanno confermato che l’uso dei nucleosidi modificati (come M1) riescono ad aggirare le risposte immunitarie dell’organismo, stimolando anche la produzione di proteine (nel caso del covid la famosa Spike). Tuttavia, i ricercatori che per primi hanno ipotizzato di usare i nucleosidi per sostituire una delle componenti dell’mRna rendendolo adatto ai vaccini, hanno scoperto anche che gli stessi nucleosidi “diminuiscono l’attività dei Tlr“. Questi ultimi sono ricettori speciali che si attivano quando riconoscono patogeni deleteri, come quelli tumorali.
Inoltre, a differenza di quanto si credeva le nanoparticelle lipidiche usate per ‘inattivare’ la trascrizione dell’mRna nel Dna per i vaccini, non si degradano rapidamente e si accumulano all’interno dei tessuti del corpo, “prevalentemente nel fegato”, dove continuano a stimolare la produzione proteica. L’ovvia conseguenza è che mentre il composto persiste nell’organismo, rimangono disattivati anche i Tlr con il rischio supposto (e non dimostrato) dai ricercatori di stimolare l’immunodeficienza. Concentrandosi, infine, brevemente sui vaccini usati contro il covid che contenevano l’mRna, i ricercatori hanno notato che a sei mesi dalla quarta dose “il numero di infezioni è aumentato rispetto al gruppo che ha ricevuto le tre dosi”, sottolineando che “dopo la terza dose, il rischio supera i benefici, soprattutto per gli anziani e i soggetti immunocompromessi”.