Proverbio napoletano: ‘O dulore è de chi ‘o sente, no ‘e chi passa e ttène mente…”. Il dolore è di chi lo sente, non di chi passa e guarda. E il ministro italiano dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, il dolore per l’extra deficit da superbonus edilizio – 220 miliardi da finanziare a spese dello Stato e cioè di tutti noi contribuenti – devo averlo sentito tutto mentre i suoi colleghi europei, sia pure con qualche importante eccezione, approvavano la direttiva per l’efficientamento energetico degli immobili da qui al 2050.
Una lodevole iniziativa, certo, coerente con la decisione di fare del Vecchio continente un faro mondiale nella lotta all’inquinamento da carbonio, nonostante ne sia responsabile per un modesto 8 per cento, ma decisamente troppo ambiziosa per quei Paesi, come il nostro, che non hanno margini di manovra nemmeno per finanziare le buone intenzioni (dopo aver sprecato risorse per quelle cattive, va aggiunto). E dunque, niente: costretti nella camicia del vorrei-ma-non-posso si è scelto di votare no.
L’interrogativo che resta sospeso è un rotondo: chi paga? Già, chi caccerà i soldi per riqualificare i 7,6 milioni di edifici (su un totale di 12,5) che rientrano nella categoria? Unimpresa calcola che ci vorrà un investimento tra i 20.000 e i 55.000 euro per unità abitativa, pari a un impegno medio di 35.000 euro a famiglia per un costo complessivo di 270 miliardi nei prossimi vent’anni. E c’è già chi sostiene che le risorse in ballo siano molto più alte considerando la pressione sui prezzi che si verificherà per la forte domanda.
E allora, chi metterà mano alla tasca? L’Europa ha già detto che non intende contrarre altro debito comune. Il Def appena varato dal Governo spiega che non sarà possibile appesantire quello nazionale già gravato dai troppi bonus edilizi. Tanto che il rapporto con il Prodotto interno lordo (Pil) tenderà a salire almeno fino al 2026 per poi scendere in piena procedura d’infrazione a causa del mancato rispetto dei parametri. E quand’anche dopo le elezioni dovesse cambiare il quadro politico, i numeri restano gli stessi.
L’approccio prudente all’impostazione del bilancio ci è utile per non innervosire i mercati finanziari e tenere basso lo spread. Sortite temerarie non ne possiamo fare. Forse ci può essere spazio nel regno incantato della spesa pubblica che ha ormai raggiunto i mille miliardi ma che nessun esecutivo è stato mai capace di toccare, nemmeno di sfiorare, nonostante i numerosi tentativi. A ogni azione è seguita una reazione più forte e decisa con il risultato di aver perso tempo e altro denaro.
D’altra parte, la strada è tracciata e difficilmente si potrà tornare indietro. Il consumo di energia delle residenze si dovrà ridurre del 16 per cento entro il 2030 e del 22 per cento entro 2035 rispetto al 2020. Dal 2028 tutte le nuove costruzioni dovranno essere concepite per le zero emissioni e dal prossimo anno saranno vietati gli incentivi per le caldaie a gas che dal 2040 saranno vietate. Ciascun Paese membro avrà due anni per recepire le indicazioni e prevedere eventuali sanzioni per chi non dovesse adeguarsi.
Siamo i soliti italiani allergici alla legge e sempre pronti a cercare l’inganno? Accanto al dato economico c’è che il patrimonio immobiliare nostrano si sviluppa su territori orograficamente impegnativi, in borghi con realizzazioni millenarie, in centri storici capaci di densità asiatiche. Insomma, le condizioni di base non sono certo le più favorevoli per accogliere i suggerimenti imperativi dell’Europa. E allora occorre trovare il passaggio giusto per giungere alla meta limitando i danni. È possibile? C’è chi sostiene di sì. Sì…, ma chi paga?
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