Le chiacchiere sull’ideale tutti le applaudono con simpatia, quando nello stesso giro di frasi se ne deduce l’abrogazione di un privilegio, altolà. E così, ieri, al Consiglio europeo, che raduna i presidenti e i premier dei 27 Paesi dell’Unione, le soluzioni a questioni annose vigorosamente proposte dal piano preparato dell’ex premier Enrico Letta sono finite in quello che tecnicamente si chiama “stallo”. E praticamente significa, stante lo statuto dell’Ue, bocciate.
A esporsi con il no secco sono stati Lussemburgo, Malta e Cipro (ma sotto sotto stavano con loro pure Olanda e Irlanda, oltre al resto dei cosiddetti Paesi frugali). Si sono opposti alla richiesta logica e persino ovvia che Letta, incaricato di individuare proposte, ha proposto ufficialmente proprio poco prima nelle 147 dense pagine del suo rapporto: i 27 Paesi devono avere regole fiscali e trattamento per le aziende identici. Altrimenti succede che appena una società da piccola si ingrandisce, sceglie di trasferire il domicilio fiscale a La Valletta o a Città del Lussemburgo o ad Amsterdam. Una volta era sopportabile. Stante i rovesci che il mondo sta subendo, non è più tollerabile per la nostra stessa sopravvivenza. Non è un bel modo di comportarsi in una famiglia quale vuole essere l’Europa, il rubare gli introiti (le tasse!) che spetterebbero ad un Paese fratello (vedi Stellantis che è francese e italiana ma paga le imposte nei Paesi Bassi).
Insomma, siamo da capo. Siccome l’Unione europea ha il vincolo dell’unanimità, ciao Letta! Non è facile conciliare l’appartenenza a una comunità più grande con il proprio interesse particolare. A meno che ci sia un’attrattiva così chiara che induca a rinunciare a un beneficio immediato, comprendendo che in realtà è illusorio e non solo fa male adesso ad altri Paesi, ma alla lunga manderà a fondo anche te.
L’aveva previsto, Enrico Letta: ci sarebbero state difficoltà ad accettare le sue proposte per adeguare il Mercato Unico Europeo alle necessità dei tempi, compito che gli era stato assegnato da Ursula von der Layen nello scorso settembre.
Letta ha mostrato e dimostrato che ci sono tre settori che non possono più essere recintati sovranisticamente, dove cioè ogni Stato fa quel che gli pare. E sono l’energia, la finanza e le telecomunicazioni (tlc). Oggi le regole consentono di agire ciascuno per sé. “Un disastro” ha semplificato Letta. Occorre subito il vincolo dell’unità, altrimenti finiremo colonizzati dalle Superpotenze. A difendere senza criterio la sovranità propria si favorisce per eterogenesi dei fini la propria sottomissione. Abbiamo tutti ben presente cosa è successo in questi ultimi anni: Covid e guerre. L’America starà magari lottando per l’Occidente, ma soprattutto sia in campo farmaceutico, sia in quello della produzione per la difesa (le armi) ha sovrastato e travolto i Paesi europei che hanno acquistato dagli Usa il 78 per cento delle armi offerte all’Ucraina.
Se l’Europa vuole pesare per dirigere il mondo verso la pace ha il dovere di essere una potenza con volti e identità sinfoniche, ma evitando la frantumazione della sua anima, la sua riduzione a tecnocrazia asservita a disegni che ci soverchiano.
Quanto accaduto ieri al Consiglio europeo, assai deludente ma altrettanto prevedibile, rende ancora più urgente e ineludibile la messa a terra, l’implementazione, del lavoro di Enrico Letta (quello di Mario Draghi, esposto a grandi linee tre giorni fa, sarà presentato a giugno, e – a quanto è dato capire – con l’istituzione di un “sottogruppo” di Stati volonterosi, permetterebbe di far saltare il catenaccio dei veti, aprendo le porte all’applicazione delle proposte dell’altro ex-premier italiano…).
Ed ecco il piano Letta. Diciamolo: non è la solita tiritera. Consegnato ai capi dell’Ue che gliel’avevano commissionato, non è figlio di buone o cattive letture, ma succo di 400 incontri intrapresi correndo in 100 città grandi e piccole dei 27 Paesi dell’Unione. La sua stesura è una sorpresa interessante. La trama vede l’intrecciarsi continuo di due fili, che non si possono separare, pena il liquefarsi dell’intuizione la quale, almeno a parere di chi scrive, costituisce il pregio e l’originalità del report. Ideale e tecnica economica si nutrono reciprocamente. Ma sono affidate a un soggetto che non sappiamo se sia pronto a recepirne il messaggio. Se manca una vibrazione di significato, la ricetta di rinascita europea è morta in sé stessa.
Il titolo “Molto più di un mercato” cita la formula usata da Jacques Delors quando nel 1985 presentò al mondo il Mercato Unico Europeo. Che vuole dire quel “Molto più di”? Non è un gioco di parole, ma l’idea che ogni cosa è segno di qualcosa che la supera. Mercato è più grande di mercato. L’economia è più grande di sé stessa. Se il Mercato e l’Economia (si scusino le maiuscole, ma servono a isolare il tema) rispondono alla loro verità non possono che rinunciare alla pretesa di essere autonome rispetto all’utilità per il bene della persona e dei popoli. Altrimenti si trasformano in tirannide. Nel rapporto di Letta, nel quale si sentono echi di cristianesimo, il richiamo a questo “oltre” non è una premessa di maniera, che sta sopra e poi saluta da lontano – come una pia intenzione – lo scandirsi di algoritmi che schiacciano i poveri cristi. Non è neppure uno scudo moralistico per lasciar campo ai poteri immorali. Ideale e tecnica sono strati dello stesso terreno. Uno invoca l’altro.
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