Immancabile come un equinozio o una fase lunare ecco qua l’ennesima polemica sul 25 aprile. Oggetto del contendere: il breve monologo dello scrittore Antonio Scurati sul quale ogni parte politica ha trovato il modo di fare la sua bella figura di guano. Non ci voleva un profeta per prevedere che affidare a Scurati, nemico giurato del governo di centrodestra, la redazione di un monologo sul 25 aprile avrebbe portato certe conseguenze. E decidere di non far pronunciare allo scrittore tale operetta con la scusa di non essersi messi d’accordo sull’astronomico compenso di 1.800 euri è stata davvero una mossa che ispira, più che pena, una forte nausea. Ovviamente la sinistra in blocco si è mossa compatta come non mai per leggere questo breve testo di 493 parole di Scurati manco fosse una delle ultime lettere dei condannati a morte della resistenza italiana.
Perché il difetto fondamentale del compitino di Scurati, pluripremiato scrittore di successo, è proprio questo: che non tratta della Resistenza. Scurati comincia trattando del delitto Matteotti perché a giugno è il centenario (e magari sarebbe stato bene ricordare, quanto alle vittime della violenza fascista, che solo negli anni Venti i fascisti uccisero 3mila italiani, non solo Matteotti).
Scurati passa poi alle stragi naziste (Fosse Ardeatine, sant’Anna, Marzabotto) addebitando anche queste alla Repubblica Sociale. È chiaro che il fascismo repubblicano porta la responsabilità morale di queste stragi, non essendosi dissociato dall’alleato nazista: ma sarebbe stato molto più appropriato ricordare che, nel biennio settembre 1943-maggio 1945, i fascisti uccisero 3mila persone e, insieme ai nazisti, altre 4mila e, si badi, non in combattimento e spesso con modalità di abietta ferocia.
Viene da chiedere a Scurati come ha fatto a scrivere un discorso sul 25 aprile senza mai citare la Resistenza, migliaia di suoi eroi, la sua importanza storica e militare. E tutto perché il tema è l’antifascismo. La sinistra è così presa dall’astio verso il nemico da non ricordare nemmeno gli eroi della Resistenza e di come essa sia stata davvero l’espressione del popolo italiano. In questo modo gli italiani continuano a ignorare chi fossero figure oggi per lo più ignote e che qui ci si limita a ricordare per nome: Puecher, Balbis, Colajanni, Galimberti, Montezemolo e poi via via, altre centinaia di nomi ormai buttati nel dimenticatoio collettivo.
E allora, visto che, se i cavalli di razza non scendono in pista, tocca ai somari correre, si propone un breve discorso “alternativo” a quello di Scurati da leggere questo 25 aprile. “A modest proposal” per ricostituire la memoria e l’unità di questa repubblica nata dalla Resistenza.
Eccolo.
Settantanove anni fa l’Italia occupata dai nazifascisti insorgeva e affrettava la fine della guerra. Fu un’impresa storica, della quale oggi si è quasi persa la memoria, e infatti sono ormai in tanti a dire che la Resistenza non è stata gran cosa. Certo, i protagonisti della sconfitta del nazifascismo in Italia sono stati i soldati venuti da tutti i Paesi del mondo a dare la vita per la libertà di cui godiamo oggi. Ma la resistenza italiana ha avuto un impatto militare superiore a quella di qualsiasi Paese dell’Europa occidentale. Perché la Resistenza ha tenuto impegnate almeno sei divisioni tedesche (a rotazione), quattro divisioni dell’esercito della Repubblica Sociale e tutto il potenziale militare della Repubblica Sociale (Brigate Nere, Decima MAS, Guardia Nazionale Repubblicana, polizia e servizi segreti). L’insurrezione del 25 aprile 1945 ha abbreviato la guerra in un momento di crisi logistica degli Alleati dopo la conquista di Bologna. E, infine, i partiti politici italiani hanno dimostrato al mondo cosa sarebbe stata l’Italia futura nelle repubbliche partigiane costituite nel 1944. Come diceva un personaggio di Il partigiano Johnny di Giuseppe Fenoglio, “la nostra Italia sarà più piccola ma più seria”.
Questa era la speranza di chi lottava per la libertà e furono in tanti: non solo i partigiani che combattevano nell’Italia occupata ma anche le forze armate dell’esercito del Sud, i partigiani italiani in Grecia e Jugoslavia, i 600mila militari internati in Germania che scelsero fame e malattie pur di non aderire alla RSI e tutto quel vasto fenomeno di resistenza disarmata che aiutò fuggiaschi, disertori, ebrei e oppositori del nazifascismo, rischiando la vita e spesso rimettendocela.
Solo un episodio della sera dell’8 settembre 1943. Centinaia di militari italiani vengono reclusi, a Bologna, in una caserma di viale Panzacchi. Decine di essi trovano una via di fuga nel canale Aposa, emergono in via Bellombra e spariscono dalla circolazione, ospitati nelle case del quartiere. Tutti costoro rischiavano la vita per un simile gesto di carità. Ma chi l’ha mai saputo? Quanti gesti del genere sono ancora oggi ignoti?
Perché la prima resistenza fu la carità di cui è capace il popolo italiano, insieme all’onore per cui combatterono i militari italiani dopo l’8 settembre, pagando questa resistenza con 20mila morti. L’onore militare, la difesa della patria e la carità furono le molle per resistere alla brutalità nazifascista prima che i partiti politici antifascisti si facessero sentire. E questo vale per gli italiani, per tutti gli italiani che non si allearono al nazifascismo e non stettero ad aspettare passivamente la fine della guerra. Non era necessario essere antifascisti: era il fascismo ad essere contro la vita e la libertà e per questo fu così aspramente combattuto.
A chi è ancora nostalgico di una ideologia morta e sepolta bisogna chiedere: “Ma tu con chi stai? Con la vita che ti ha dato questa democrazia o con un fantasma del passato?”. Una democrazia che ha accolto e valorizzato anche le centinaia di migliaia di italiani che avevano aderito alla RSI con lo sguardo che fu proprio di un eroe della resistenza come Pietro Ferreira, fucilato il 23 gennaio 1945, medaglia d’oro della Resistenza.
Così Ferreira scriveva a un ufficiale fascista:
Dalle carceri di via Asti, Torino 22/1/45 ore 16,50
Caro Tenente Barbetti
condannato a morte e a poche ore dalla esecuzione mi sento libero, leggero, sfrondato di ogni umana convenienza e di ogni particolare interesse per cui la mia parola è pura e limpida come acqua sorgiva, e ciò che mi esce dalla penna non può esser altro che sgorgato dal cuore.
È in queste condizioni di spirito che sento il bisogno di rivolgere un saluto anche a Voi prima di lasciare questa vita in cui ho vissuto tanto intensamente.
Voi tenente Barbetti, colla vostra purissima fede di fascista e nazionalista mi avete fatto ricredere su molti preconcetti che avevo sul mondo fascista repubblicano. Conoscendovi ho appreso ed ho dovuto constatare che anche tra le vostre file vi sono degli uomini puri, onesti e d’onore per i quali le doti morali staccandosi nettamente da ogni considerazione di carattere politico, brillano di luce propria e rendono la propria personalità inattaccabile da qualsiasi calunnia o ingiustizia anche a fine politico.
Io, che muoio per la causa della libertà d’Italia voglio gridare a gran voce che chi da radio Bari ha pronunciato le note parole ingiuriose nei vostri confronti è un ignorante o un blasfemo. Voi non siete un criminale di guerra, come vi hanno definito, ma siete una persona d’onore, un puro, che segue la voce della coscienza e della lealtà. E ciò voglio dirlo, anzi, gridarlo io, Pedro Ferreira, in punto di morte. Possa questo mio grido che sale dalla fossa, giungere all’orecchio di coloro che non conoscendovi che per l’ufficio che occupate e la carica che rivestite vi vogliono del male.
Io vi ringrazio, tenente Barbetti, di tutto quanto avete fatto per me. Nell’ambito della giustizia avete fatto tutto quanto vi era possibile fare per salvarmi. Al processo tutto quanto potevate testimoniare a mio favore l’avete testimoniato, quantunque voi siate per me un nemico. Nuovamente commosso e riconoscente, vi ringrazio tenente Barbetti e vi auguro di ritornare felice domani in un’Italia rinata a nuova vita, con la vostra signora e i vostri bambini nella vostra natia Capua ove vi sarei venuto a trovare un giorno se il destino non mi fosse stato così nemico.
Ed ora vi saluto, tenente Barbetti, vi dico addio, e vi chiedo di permettermi di abbracciarvi e, superando tutto ciò che ci divide, considerarvi in questo supremo momento un caro, un vero amico
ten. Pedro Ferreira.
Questa è l’Italia che vogliamo. L’Italia di Pietro Ferreira.
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