Entro l’estate, secondo quanto ha spiegato Giancarlo Giorgetti in audizione alle commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato, verrà approvato e presentato il quadro programmatico assente nel Documento di economia e finanza. Il ministro dell’Economia ha anche evidenziato che la revisione in negativo del rapporto deficit/Pil del 2023 (dal 7,2% al 7,4%) operata dall’Istat “non incide sulle previsioni contenute nel Def, in quanto già scontate nel profilo del livello del debito in percentuale sul Pil”. Secondo Nicola Rossi, Professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, «un problema per i nostri conti pubblici era già evidente prima di quest’ultimo dato dell’Istat. Del resto, l’impatto del Superbonus è veramente difficile da stimare con attenzione e, pertanto, la revisione operata non mi sorprende.
La cosa più importante, a questo punto, non mi sembra tanto focalizzarsi su quello che è accaduto nel 2023, quanto porre l’attenzione sul profilo di risanamento dei conti pubblici che il Governo ha in atto di intraprendere, che in parte conosciamo perché qualcosa già dal Def si evince, ma che conosceremo sul serio quando, probabilmente prima di settembre, oltre alle valutazioni tendenziali saranno rese note anche quelle programmatiche».
Cosa si riesce a evincere di preciso dal Def in merito?
Riusciamo a evincere quello che in fondo sappiamo benissimo: abbiamo davanti anni, non mesi, di necessaria politica di bilancio rigorosa e disciplinata. L’unica maniera per sfuggire a questo destino è riprendere a crescere in maniera sostenuta in termini potenziali, non congiunturali. Questo implica che il Pnrr dovrebbe avere la capacità di incidere sul prodotto potenziale in maniera significativa. A oggi, però, non abbiamo elementi per essere certi che ciò avverrà.
Entro il 2026 occorrerà, quindi, fare il massimo per implementare il Pnrr.
In realtà, il vero problema è quello che accadrà dopo il 2026. Fino ad allora, infatti, in qualche maniera l’impatto dal lato della domanda della maggiore spesa pubblica, in parte per investimenti in parte no, produrrà qualche effetto. Nelle proiezioni del Def vediamo però che sarà un effetto piuttosto ridotto, in quanto la spesa pubblica ha moltiplicatori molto bassi. Chi pensava che la crescita si potesse fare con la spesa pubblica dovrebbe oggi cospargersi il capo di cenere. Il punto è che non abbiamo oggi elementi per poter dire se dopo il 2026 tutto quello che c’era nel Pnrr avrà prodotto risultati che si tradurranno in ritmi di crescita del prodotto potenziale più elevati.
Per far sentire meno il peso del Superbonus sui conti pubblici, il Governo ipotizza di allungare da quattro a dieci anni i tempi di utilizzo dei crediti d’imposta. Alla luce di quello che sta dicendo sarebbe solo un palliativo?
Non è una questione di palliativi, si tratta di una modalità con cui stiamo cercando di farci meno male. A essere sinceri, chi voleva farci male ce l’ha già fatto introducendo il Superbonus. Ora stiamo cercando di farci meno male, ma non è certo una modalità con cui affrontare il risanamento strutturale dei conti pubblici.
Per questo occorre spingere la crescita.
Intendiamoci, però, su cosa significhi spingere la crescita, perché sembra quasi che sia il risultato dell’utilizzo del bilancio pubblico. Non è così. Vorrei che fosse ben chiaro, vista anche l’evidenza in merito degli ultimi anni, che la crescita non si fa con il bilancio pubblico. Occorre che le forze private di questo Paese decidano che vogliono investire, che vogliono crescere, che vogliono giocarsi la loro partita. È lì la riserva del Paese, se c’è, non nel bilancio pubblico.
Lo Stato può e dovrebbe comunque cercare di incentivare la volontà di investire e crescere dei privati…
Certamente e il settore pubblico può fare molto da questo punto di vista: potrebbe cercare di essere meno presente, meno invasivo, meno avido quando a un certo punto si parla di tasse. Sono tante, quindi, le cose che il settore pubblico può fare, ma si tratta di cose in cui può fare meno, non di più come in tantissimi ritengono necessario per avere più crescita. Credo che gli ultimi anni dimostrino che non è così.
Se abbiamo il problema di risanare i conti pubblici, ha senso varare nuovi bonus come quello sulle tredicesime di cui si sta parlando nelle ultime ore?
Questo dipende dalle scelte sulle coperture. Se derivano da tagli di spesa non vedo perché non si debba pensare di modificare la composizione del bilancio pubblico. Su questo fronte si può fare moltissimo. C’è, però, un problema di fondo: l’incapacità delle classi dirigenti degli ultimi decenni di vedere le cose per quelle che sono. La loro paura per così dire di assumere decisioni le porta a pensare che l’unica strada sia quella di variare le dimensioni del bilancio pubblico. Questo, però, non porta da nessuna parte, come abbiamo avuto modo di vedere negli ultimi anni. Probabilmente la strada vera da intraprendere è quella di cambiare la composizione del bilancio pubblico: meno spesa corrente e più spesa per investimenti, più spesa per l’istruzione e meno per altre attività, ecc. C’è da sbizzarrirsi se si hanno la voglia e il coraggio.
Siamo di fronte a una classe politica che ha la possibilità di effettuare questo cambio di paradigma?
Finora il comportamento del ministro dell’Economia è stato a mio avviso assolutamente condivisibile: prudente, in grado, quando è stato il momento, di resistere a una serie di pressioni, determinato sulle privatizzazioni. È chiaro che stiamo immaginando un salto di qualità ulteriore, ma questo ci è imposto dal bivio di fronte al quale ci troviamo: o anni di crescita asfittica e di bilanci pubblici straordinariamente contenuti e magri, oppure scelte coraggiose in grado di liberare le energie del settore privato del Paese che potrebbero anche offrire uno spazio addizionale al bilancio pubblico.
(Lorenzo Torrisi)
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