A poco più di 200 giorni dallo scoppio della guerra che sta martoriando la Striscia di Gaza e che rischia sempre di più di coinvolgere buona parte del Medio Oriente, il cardinale Pierbattista Pizzaballa è tornato a parlare con Avvenire sulle condizioni in cui versano i rifugiati palestinesi e (soprattutto) sulle ipotesi per scrivere la parola fine al conflitto. Dopo anni di vita a Gerusalemme (e la scelta coraggiosa di rimanerci dopo il 7 ottobre), il cardinale ha visto ogni tipo di conflitto, “guerra, intifade, scontri”, ma è certo che quella odierna è “la prova più difficile“. Pizzaballa si dice preoccupato soprattutto dell’incertezza di “quanto durerà ancora la guerra e cosa succederà dopo”, perché la sua seconda certezza è che “nulla sarà più come prima“, tanto a Gaza, quanto nel resto del Medio Oriente.
Per digerire il conflitto, riflette, “ci vorranno tempi lunghi. E la pazienza”, due fattori a cui i palestinesi sono ben abituati, soprattutto dopo “una guerra che in varie forme dura comunque da 76 anni” e in cui non si è mai riusciti a raggiungere una vera pace. “Qualche coraggioso ha tentato la strada politica”, ricorda il cardinale Pizzaballa, ma senza successo perché “sono sempre stati tentativi dall’alto verso il basso”, mentre secondo lui a Gaza servirebbe “un percorso dal basso verso l’alto“, ovvero che parta dalla voce del popolo palestinese e di quello israeliano: solo il dialogo (sempre secondo il cardinale) può riportare la pace, tramite il sempre più ignorato riconoscimento “del dolore dell’altro”.
L’idea di Pizzaballa: “Un pasto comune tra ebrei e musulmani per rilanciare il dialogo”
Passando con la memoria alla condizione dei rifugiati a Gaza, il cardinale Pizzaballa si dice soddisfatto che solo pochi giorni fa “sono arrivati due contenier carichi di cibo e finalmente nella parrocchia possono mangiare qualcosa”; ma nonostante il (pur sempre limitato) cibo, il problema è che “la situazione rimane difficile per l’equilibrio psicologico”, soprattutto “dopo sei mesi di cattività nei locali della chiesa”. Il morale, però, rimane alto, soprattutto tra i colleghi del cardinale Pizzaballa che hanno deciso di rimanere a Gaza per aiutare i rifugiati, che sono fieri del “lavoro per il bene di tutta la comunità” che stanno portando a termine.
Ragionando, poi, sui belligeranti, ricorda che recentemente “è cominciata Pesach ed è terminato il Ramadan”, una duplice festività che potrebbe (e, forse, dovrebbe) stimolare quel riconoscimento e quel dialogo necessari per superare l’odio e la distruzione. Secondo Pizzaballa, infatti, “non c’è bisogno di grandi discorsi: insieme consumare un pasto, bere qualcosa, per abbattere i muri che ci separano”.