La bocciatura da parte dell’Italia (degli esponenti dei partiti che la rappresentano a Bruxelles) del nuovo Patto europeo di stabilità e crescita – non crescita e stabilità come sarebbe stato più saggio – fornisce lo spunto per qualche considerazione generale sullo stato psicofisico del Paese e delle sue istituzioni.
L’astensione e il voto contrario che hanno contraddistinto la posizione italiana – differente da tutte le altre, espresse in senso favorevole alla norma – dipende dal fatto che l’Unione pone un limite alla possibilità di spendere attraverso l’indebitamento che da noi risulta essere eccessivamente alto nei confronti della ricchezza.
È il famoso rapporto debito/Pil (Prodotto interno lordo) che non dovrebbe superare la soglia del 60 per cento e che da noi veleggia tra il 140 e il 150. Un risultato così cattivo da risultare il penultimo tra i ventisette partner del Continente, battuto solo dalla Grecia che ha conosciuto un vero e proprio stato d’insolvenza.
Il freno posto al nostro Governo – vale per chiunque sia in sella – è considerato con fastidio perché impone in teoria comportamenti ispirati al principio della parsimonia avendo tanto speso o sperperato in passato. Naturalmente c’è anche chi guarda con grande favore al richiamo comunitario che ci induce alla virtù.
Tutto questo per arrivare al punto dolente della vicenda che è e resta il debito accumulato in tanti anni di gestioni in deficit in gran parte dovuti alla spesa pubblica che in Italia è fuori controllo attestandosi a circa la metà del valore dei beni e servizi prodotti. Tanto è vero che per cercare di farvi fronte la tassazione è cresciuta a dismisura.
Se il 25 aprile si festeggia la liberazione dal nazifascismo, il giorno della liberazione dal fisco lo scorso anno è caduto in Italia l’8 giugno. Vale a dire che fino a quella data abbiamo lavorato esclusivamente per lo Stato e solo dal 9 giugno abbiamo cominciato a guadagnare e mettere da parte per noi stessi, le nostre famiglie, le nostre imprese.
Certo, si tratta di un dato che misura la media dovendo considerare che accanto a chi viene letteralmente tosato dal fisco c’è una larga fascia di popolazione che non paga perché non ha risorse sufficienti e un’altra fascia che non paga perché evade. Il risultato finale è comunque preoccupante: si versa molto per ottenere poco.
I soldi raccolti dal centro non sono impiegati nel migliore dei modi: troppe inefficienze, dolose o colpose, lasciano insoddisfatti troppi cittadini e la richiesta di maggiore autonomia da parte di alcune regioni poggia proprio su queste basi. Lo Stato spreca, ruba o è incapace. Meglio vedersela sui territori dove il controllo è maggiore.
Questa discussione porta con sé una domanda da un milione di dollari (si diceva una volta): quali sono i compiti che uno Stato che si rispetti deve assolvere? Il miglior governo (a parità di capacità) è quello che si intromette il meno possibile nelle faccende degli amministrati o è quello che pretende di metter mano in ogni cosa?
Scartando gli eccessi – nessuno Stato, Stato totalitario – occorre trovare la giusta misura che lasci abbastanza risorse e margini di manovra agli individui lasciati liberi di organizzarsi come meglio credono e garantisca la possibilità d’intervenire laddove ce ne sia davvero bisogno secondo il sacrosanto principio della sussidiarietà.
Occorre rifondare l’Europa, questo è sicuro, e rifondare nello stesso tempo l’Italia che a dispetto della “Costituzione più bella del mondo” non è più in grado di soddisfare i cittadini – contribuenti o meno – se non attraverso politiche redistributive che sanno di prebende e favori a gruppi organizzati più ancora che di giustizia sociale.
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