I giorni che separano il 25 aprile dal Primo maggio sono, per il nostro Paese, giornate molto particolari che – ciclicamente – animano contrapposizioni e polemiche. Il tentativo ideologico di brandire la storia della Liberazione, tingendola di un solo colore, si scontra con l’altrettanta terribile ritrosia a negare i fatti, in un grottesco revisionismo che rende la dialettica politica una guerra antropologica: il problema non è più come argomentare al meglio le proprie posizioni culturali, ma diventa quale schieramento – quale umanità – abbia il diritto di esistere.
È evidente che questo conflitto diventa la cornice perfetta sia per evitare di parlare del presente, illudendosi che la complessità dei problemi attuali sia facilmente superabile rinchiudendosi in uno schema ideologico del passato, sia per non costruire un patrimonio di valori condivisi, condannando ogni elezione politica ad essere una sorta di “giudizio di Dio”.
La stessa dinamica, del resto, la vediamo con la Festa del Lavoro. Se è corretto che una tale ricorrenza porti all’attenzione dell’opinione pubblica tutti i problemi del mondo del lavoro, con una certa polemica verso chi – anno dopo anno – sta al governo e non attua le politiche ritenute necessarie dalla piazza, è invece profondamente scorretto che l’occasione si trasformi in un’arena per le più svariate istanze, per guidare un assalto al fortino del potere, illudendosi che le sorti della nazione si decidano con i consensi delle piattaforme social o delle piazze dei concerti e non con politiche serie e strategie di intervento mirate. Spiace vedere che, in risposta a questa banalizzazione dei problemi del lavoro, spesso arrivino provvedimenti propaganda, bandierine da mettere sul campo per non lasciare tutta la giornata dei siti e dei telegiornali all’appannaggio esclusivo dell’avversario. È un problema serio, che racconta alcuni sintomi del male oscuro del nostro tempo, quello dell’assenza di un senso e di un significato.
Sul tema del lavoro, ad esempio, ci troviamo di fronte ad una generazione che rinnega il valore del lavoro, che chiede una serie di diritti che raccontano l’esperienza lavorativa come un male necessario per fare soldi e non come il modo con cui ciascuno può realizzare se stesso, mettendo mano alla realtà. Il disegno del nostro tempo è quello di un’esistenza che inizia quando un adulto lo vuole, disponendo di embrioni congelati da impiantare secondo necessità, senza che la generazione sia legata alla complementarietà biologica. Tale esistenza deve crescere senza ansie, senza difficoltà e senza fatiche, in un sistema scolastico che educa alla libertà totale e non alla libertà come partecipazione.
Le ansie di quest’ipotetica esistenza devono essere sopite da psicofarmaci, sostanze stupefacenti o divertimenti anestetizzanti per consegnare alla persona un diploma, una laurea e una patente da consumatore da impiegare nel mercato del lavoro senza dar fastidio a nessuno, in una concezione di individuo che è puro istinto, pura reazione, con una vita sessuale senza riflessione, weekend molto lunghi e stipendi molto alti. E, qualora arrivino difficoltà o dolori, ci si potrà sempre lasciare o chiedere di porre fine alla propria vita.
È chiaro che quello rappresentato è un quadro volutamente esagerato e molto generalizzante, ma è altrettanto chiaro che quando noi festeggiamo il lavoro in un certo modo, stiamo chiedendo un certo tipo di vita. Ed è questo che oggi manca nella società: la capacità di connettere quello che chiediamo con la vita che esso comporta. Desideriamo davvero un’esistenza come quella poc’anzi descritta? Non abbiamo nulla da dire o da condividere sull’esperienza lavorativa? Che cosa significa per noi fare festa il Primo maggio?
C’è un esempio, su questo, che è illuminante. La Festa del Lavoro, come si sa, nasce alla fine del XIX secolo e nasce in conseguenza di una serie di fatti che insanguinarono Chicago durante una dura ondata di proteste per ottenere la giornata lavorativa di otto ore. Tale ricorrenza fu portata in Italia alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento e divenne festa con tutti i crismi solo durante l’epoca fascista, che la solennizzò in coincidenza del natale di Roma il 21 aprile. Quando, terminata la guerra, il giorno festivo fu spostato nuovamente al Primo maggio, Pio XII temeva che la giornata non fosse di tutti, ma rappresentasse solo le istanze della sinistra socialista e comunista. L’originalità del Papa portò, nel 1955, all’istituzione della festa di san Giuseppe lavoratore. Egli non scelse di contrapporsi, ma di unirsi con un approccio diverso, originale, che promuoveva un concetto di lavoro che era incarnato da san Giuseppe.
È questa passione al bene, al paragone tra le cose che facciamo e il desiderio che abbiamo, che oggi è venuto meno. Quel paragone, per Pio XII, divenne una nuova festa nella festa. Si dice che la sorpresa di Togliatti fu enorme: il Papa non attaccava, ma festeggiava di più il desiderio che muoveva la ricorrenza.
Il 25 aprile non fu da meno. Forse pochi sanno, anche tra le fila del mondo cattolico, che la festa della Liberazione venne inventata nel 1946 da De Gasperi che chiese al Luogotenente del Regno, Umberto II, di promulgarla. Era importante per lui che ci fosse un giorno di memoria comune del tragico vissuto della Seconda guerra mondiale e del risveglio del popolo italiano per riscattare la patria dal regime fascista. Ma De Gasperi desiderava anche altro: ricordare tutti coloro che in quel conflitto e sotto quel barbaro regime erano morti, tra cui 310 preti uccisi dal nazifascismo in Italia. La Chiesa, agli occhi del popolo, non uscì dalla Guerra collusa con il fascismo – come invece accadde altrove – perché i preti erano morti col popolo, avevano dato la vita per la loro gente e con la loro gente.
Pensare che il 25 aprile, una festa pensata da un cattolico e promulgata da un Re, sia oggi una festa opinabile o contesa è chiaramente ridicolo e frutto della mancanza di memoria e di serietà da parte di tutti. Pio XII era profondamente colpito dal fatto che la Liberazione fosse coincisa in alcune città proprio con la festa di san Marco, che portava nel mondo il Vangelo della liberazione. Oggi i soloni dei social scrivono “Io festeggio san Marco, non la liberazione”. Credendo di essere avveduti e anticonformisti. Non accorgendosi, in realtà, di tradire l’unico metodo che rende vivo e imprevedibile il cristianesimo. Quello dell’Incarnazione.
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