La cinese CNPC ha fatto un accordo da 400 milioni di dollari con il governo del Niger. E l’Occidente si allontana sempre di più dall’Africa. La strategia della Cina, vincente ormai da qualche anno nel continente nero, tanto da avere scalzato l’Unione Europea come principale partner economico, continua a puntare sull’energia e sulle infrastrutture e incontra i favori di un sempre maggior numero di Stati. Soprattutto di quelli, come il Niger, che essendo guidato da una giunta golpista non ha più rapporti stretti con la comunità internazionale, quella dei Paesi che sono retti da governi democratici, e per questo ha bisogno assoluto di trovare altri interlocutori.
Pechino, insomma, consolida la sua leadership in Africa: in quella subsahariana nel solo primo semestre del 2023 avrebbe investito oltre 4 miliardi di dollari. Ora, però, deve risolvere un dilemma. Deve stabilire, spiega Marco Di Liddo, direttore del CeSI, il Centro studi internazionali, se la sua presenza debba essere solo di tipo economico o se si debba allargare a quello militare. Per il momento ha una sola base, a Gibuti, ma sta pensando di realizzarne almeno un’altra sull’Atlantico.
Quale significato ha l’accordo firmato dai cinesi con il Niger per la commercializzazione del petrolio?
Ha un’importanza economica e politica da non sottovalutare. È il classico accordo in stile cinese: Pechino offrirà un prestito di 400 milioni di dollari che i nigerini pagheranno in 10-12 anni, con il 7% di interessi, grazie agli introiti petroliferi. Il Niger produce 20mila barili al giorno, ma vuole arrivare a decuplicare la produzione entro il 2026. Lo farà appoggiandosi ai cinesi e sfruttando il bacino di Agadem, scoperto negli anni 70, ma di cui solo di recente si sono comprese le vere potenzialità.
Perché i cinesi hanno puntato proprio sul Niger?
La Cina ha preso l’iniziativa perché la giunta golpista nigerina ha difficoltà a parlare con altri investitori. L’accordo non è solo di produzione ed esplorazione ma anche di commercializzazione del petrolio: i cinesi faranno in modo di esportarlo attraverso la pipeline che passa dal Benin fino a Cotonou, che loro stessi hanno costruito. L’intesa prevede anche l’aumento della capacità di raffinazione nell’impianto di Zinder.
Un’intesa che aumenterà l’importanza geopolitica del Niger nell’area?
Il prodotto raffinato sarà soprattutto per il mercato locale e per Mali, Burkina Faso e Ciad. La giunta avrà così un enorme cash flow per migliorare le sue capacità militari, per combattere ribelli e terroristi e rafforzare il suo potere. I soldi poi verranno distribuiti tra i vari clan e potentati: un modo per il governo di assicurarsi la stabilità del suo ruolo negli anni futuri. Grazie alla raffinazione, inoltre, si rafforza l’asse economico tra i Paesi governati da giunte militari, con un fronte anti-occidentale, anti-Ecowas e vicino a Russia e Cina.
La presenza della Cina in Africa è legata soprattutto alla realizzazione di infrastrutture. Ma si rivolge anche all’energia. Come è cambiata la politica di Pechino in questi anni?
Inizialmente la penetrazione cinese era basata su tre settori: il primo era quello dell’estrazione delle materie prime, poi venivano le grandi infrastrutture (aeroporti, porti, autostrade), funzionali a migliorare la capacità di export e quindi di invio di petrolio e materie prime in Cina. A tutto questo si accompagnavano investimenti di tipo sociale per bilanciare l’accordo: ospedali, quartieri rinnovati per la classe media e le autorità dei singoli Paesi. Infine si è passati a investire nelle infrastrutture ma con un’attenzione maggiore al ritorno sul territorio.
Poi come si è evoluto l’approccio cinese?
La Cina ritiene che l’Africa debba essere un mercato per l’acquisto dei suoi prodotti e per la delocalizzazione di alcune sue aziende, portando sul territorio industrie a bassa e media tecnologia. Ha proceduto così in Paesi come Nigeria ed Etiopia, con la costruzione di parchi industriali o con aree di libero scambio, a forte esenzione fiscale, dove trasferire società che fanno trasformazione alimentare o produzione di beni di consumo. La linea che unisce tutto questo è la spregiudicatezza dal punto di vista politico: la Cina non chiede il rispetto dei diritti umani, vuole solo fare affari e la stabilità dei Paesi in cui agisce. C’è stato un rallentamento degli investimenti in occasione del Covid, ma adesso stanno riprendendo.
Pechino pensa solo alla sua economia o ha anche altri obiettivi?
Deve capire se è sostenibile una politica di sola penetrazione economica o se deve offrire una presenza militare un po’ più diffusa. Al momento la Cina ha una base a Gibuti per mettere in sicurezza la navigazione tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, ma sta pensando di realizzarne una dall’altra parte del continente, sull’Oceano Atlantico, nel Golfo di Guinea. Comunque non sarà una cosa immediata: ci vuole una visione, necessaria per proiettare la propria capacità militare all’estero.
Ma dove è presente la Cina in Africa, in quali aree?
Dappertutto. Ha iniziato negli anni 50 soprattutto in Africa australe, in Mozambico, in Angola, dove c’erano dei movimenti di guerriglia che potevano collaborare con il Partito comunista cinese. Poi dalla metà degli anni 80 il ritiro sovietico ha aperto delle opportunità. La Cina ha sostituito l’URSS come interlocutore privilegiato, approfittando del vantaggio di potersi presentare come nazione che non ha un passato coloniale e vendendosi come Paese in via di sviluppo.
La presenza della Cina ora è predominante rispetto a quella degli occidentali? Se si dovesse stilare una classifica dei partner economici dell’Africa il Dragone sarebbe al primo posto?
Sì, al primo posto, dopo di che, per interscambio commerciale e fondi inviati, verrebbe l’Unione Europea, quindi le monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Emirati e Qatar), USA e Russia a scendere.
Il Niger sta mettendo le basi per un accordo con l’Iran che riguarda l’uranio. L’intraprendenza di Russia e Cina va di pari passo con quella dei loro alleati di Teheran?
L’Iran segue la sua politica africana da decenni, alternativa a quella cinese e russa. È il ritiro dell’Occidente che gli offre maggiori possibilità, ma non è arrivato ieri in Africa. L’Iran ha difficoltà a uscire dall’isolamento internazionale e qui cerca sponde che permettano di rompere questo isolamento. L’accordo con il Niger sull’uranio è preliminare; gli iraniani, impegnati in un importante programma nucleare, vogliono una fonte alternativa di approvvigionamento, anche se l’apporto del Niger non è decisivo. Niamey è nella top ten dei Paesi che dispongono di uranio e la sua situazione politica crea condizioni favorevoli per un accordo economico.
(Paolo Rossetti)
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