Gli incentivi per il lavoro varati dal Governo potranno essere benvenuti per molti italiani, imprenditori e disoccupati: ma l’annuncio alla vigilia del Primo Maggio, a cinque settimane dal voto europeo e in uno stesso pacchetto con un “voucher” di 100 euro per l’inizio del nuovo anno non rappresentano un vertice di estetica politica. E neppure di sostanza: laddove, dopo 18 mesi, una politica del lavoro del Governo Meloni tarda a prendere forma. Può darsi che l’elezione di Emanuele Orsini a Presidente di Confindustria sblocchi una parte sociale, mentre da parte sindacale restano le divisioni fra organizzazioni, mentre (soprattutto in campagna elettorale) non è assente qualche fenomeno storico di “cinghia di trasmissione”. Resta il fatto che il partito di maggioranza relativa, che esprime la Premier, non sembra essersi messa in reale sintonia né con i datori né con i lavoratori del settore privato: scontando forse più del dovuto un radicamento elettorale presso i dipendenti pubblici.
Ed è pur vero che oggi gli impulsi veri tendono a venire sempre di più dall’Ue – che sta rinnovando la sua intera governance, in un passaggio critico sul piano geopolitico – in sinergia stretta con la politica industriale e degli investimenti pubblici. La possibilità di creare velocemente nuovi posti di lavoro – e di alzare i livelli retributivi premuti dall’inflazione – dipenderà molto dalla direzione e dalla velocità di macro-orientamenti come la transizione verde (in fase di sostanziale stand by) e i programmi di riarmo europeo (e non ultimi quelli riguardanti la ricostruzione dell’Ucraina, auspicabilmente il più presto possibile). È comunque evidente che – non solo in Italia – la spinta del Pnrr va rinnovata e nel caso rimodulata, anche in chiave di numeri e qualità occupazionali.
Nel frattempo, tuttavia, non possono sfuggire segnali meno strettamente macro-economici (non manca chi attribuisce all’inefficienza del mercato del “primo lavoro” una parte non piccola dei fenomeni di disagio giovanile sfociati nelle tensioni universitarie). Una ricerca appena sfornata da Ipsos e Legacoop su un campione rappresentativo di giovani fra i 18 e 34 anni colloca solo in ottava posizione il lavoro come valore in sé nella scala esistenziale. Il “job” tradizionale è essenzialmente una fonte di reddito (entro certi limiti perfino in competizione con altre) e soggetta ad altri valori, vissuti come più importanti: come la realizzazione di sé (umana e professionale), il partecipare a un’organizzazione con regole flessibili e a bassa conflittualità interna.
La survey ha dunque riportato a una questione centrale in era post-Covid: perché molti giovani – oltre a non “trovare lavoro” – rifiutano talvolta quello che gli viene offerto? Fino al punto di lasciarlo volontariamente dopo pochi mesi o anni. Un sistema-Paese come l’Italia non può continuare a non essere all’altezza di una “politica del lavoro giovanile”. Non può esserlo dopo aver buttato nel cestino il Jobs Act costato anni di lavoro politico mirato a far funzionare davvero il mercato. Non può rinunciarvi quando le ondate migratorie stanno cominciando a essere (molto timidamente) considerate una risorsa, ma solo a patto di essere incorporate in grandi scelte politiche. Con il lavoro non solo slogan da Primo Maggio.
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