Caro direttore,
si avvicinano le elezioni europee. La città si riempie di maxi-manifesti di propaganda politica.
Tutti le immagini riportano il volto di un leader. Mentre guido e con la coda dell’occhio seguo la processione di queste figure, sono preso dalla tristezza e dalla malinconia. È disumano, è sproporzionato, mettere sulle spalle di un individuo (fosse anche il più preparato e abile politico) il peso immenso di uno “star meglio”, di un benessere maggiore dell’intera popolazione. Innanzitutto è disumano per gli stessi leader. Oggi alle stelle, domani nel fango, perché necessariamente caduti sotto l’oggettiva incapacità di portare nell’immediato delle soluzioni efficaci alle ferite di un Paese.
Ma non ci accorgiamo di questa dinamica anche nel piccolo delle nostre vite e dei nostri ambienti lavorativi?
Nelle grandi aziende – ne sento sempre più di frequente il racconto – si assiste al continuo e febbrile turnover di dirigenti che dovrebbero sistemare le cose con la loro bacchetta magica. Così anche all’interno di enti ed uffici statali. Nascono sigle e siglette per legittimare l’entrata di tal tizio o tal altro manager con il compito di dare una svolta al grigiore delle cose, all’inefficienza delle azioni. All’inizio interviste, grandi titoli sui giornali, fortissime dichiarazioni di intenti. Tutto cade nel vuoto dopo poco tempo. Peggio di prima.
Nella scuola la situazione non è diversa. Quante volte pensiamo che una classe “non funziona” per l’influsso negativo di qualche collega? Quante volte pensiamo di avere noi la formula giusta per trattare i ragazzi? Quanti contrasti e dissidi nei consigli di classe, originati proprio da questa mancanza di stima negli altri?
L’unica nostra consolazione: quel ragazzo – quella classe – è affezionato a me. Si capisce che io ho agito bene. Che io li aiuto.
Sembra quasi di poterlo vedere, il nostro volto stampato con immagini gigantesche lungo le pareti della scuola, a sottolineare il nostro io megalomane come colonna necessaria alla vita dell’istituto e dei nostri alunni.
In realtà stiamo perdendo l’unico concetto, l’unica piattaforma, su cui veramente si può costruire. Quello di popolo. Quello del “noi”.
Il vero contributo che si può dare oggi a una società è quello che deriva da una storia, anzi da storie diverse, fatte di volti, fatti, sacrifici, lavoro, impegno, scoperte di tanti uomini. Persone che hanno incarnato – come figli, e a loro volta come padri – ideali e orizzonti, significati grandi per cui vivere. Così come fu alla fine della Seconda guerra mondiale, quando tante tradizioni si diedero la mano per scrivere una costituzione.
Ultimamente, in una classe caotica e insubordinata, ci siamo fermati in aula, tre docenti di materie diverse, a dialogare con i ragazzi. Vedendo questa unità, i ragazzi si sono avvicinati di loro spontanea volontà a noi prof e ai pochi amici con cui avevamo iniziato il dialogo, unendosi alla conversazione con grande interesse e passione. Hanno visto un luogo sicuro di adulti, insieme tra di loro, a cui poter aprire il loro cuore senza paura.
Questo stare insieme, porsi insieme, dentro la difficoltà di una situazione, a scuola e non, salva il singolo perché lo corregge continuamente. L’alternativa è il cercare sempre di appellarsi a regole su regole che dicano che io ho ragione e gli altri sono nel torto. Invece la questione fondamentale è vivere un’appartenenza che accolga il contributo dell’individuo e lo salvi, lo rimetta in pista, lo ricentri dalle sue deviazioni e riduzioni, dagli errori che inevitabilmente compie. L’appartenenza a un popolo è una educazione per la persona.
Scriveva don Luigi Giussani ne L’avvenimento cristiano: “Come è possibile che l’uomo sostenga il suo cuore di fronte al cosmo e soprattutto di fronte alla società? Come può fare l’uomo a sostenersi in una positività e in un ultimo ottimismo? La risposta è non da solo, ma coinvolgendo con sé altri. Stabilendo una amicizia operativa: cioè una più copiosa associazione di energie basata su un riconoscimento reciproco. Questa compagnia è tanto più consistente quanto più il motivo per cui nasce è permanente e stabile. Un’amicizia che nasca da un cointeresse economico ha la durata del giudizio circa la sua utilità. Invece (…) una unità che nasca dalla percezione di quel cuore che abbiamo in comune [anche con i ragazzi, aggiungo io] e che ci definisce come uomini, stabilisce una ‘appartenenza’”.
Credo sia tornato il tempo del popolo. Si è più saldi, si è più se stessi, quanto più si appartiene a un popolo.
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