Per una persona non più giovane, come me, il periodo delle vacanze estive muove una memoria profonda, che trae linfa dall’infanzia e dalla fanciullezza. Quei tre mesi di lontananza dalla scuola, senza alcun rientro, evocano ricordi caldi e affettivi, appartenenti, tuttavia, a logiche esistenziali e sociali di altri tempi. I mondi vitali, quello della famiglia, degli oratori, dei luoghi di sport e divertimento funzionavano. Ma ora, tralasciando gli amarcord (poco nostalgici, peraltro, perché quello del “buon tempo antico” è solo un mito), vale la pena di chiedersi se i tre mesi abbiano ancora valore.
Recentemente alcuni politici hanno evidenziato come essi provochino forti disagi alle famiglie che, nel periodo estivo, salvo nei giorni di ferie, sono impegnate nel lavoro, ma su questo argomento torneremo più avanti. Per il momento esaminiamo la questione dal punto di vista delle attività didattiche, muovendo da una constatazione: gli insegnanti sanno, per esperienza, che dopo la sospensione estiva delle lezioni c’è la necessità di rimettere mano agli apprendimenti pregressi, prima di affrontare il nuovo programma. Sanno anche che questo è un lavoro impegnativo, perché gli alunni hanno perso l’esercizio allo studio.
Il concetto di continuità è stato focalizzato nei dibattiti di natura socioculturale e interazionista negli anni 70 e 80 del secolo scorso. Proprio in quegli anni si è riscontrata l’importanza del gruppo dei pari e degli adulti di riferimento, unitamente a quella del rapporto con l’ambiente: tutti elementi che consolidano la logica della continuità. Nella didattica, come ha scritto Susanna Mantovani, è opportuno offrire ai bambini un filo conduttore, tramite il quale essi abbiano la sensazione di procedere per cambiamenti graduali e organici, in cui le esperienze precedenti siano di base ai nuovi apprendimenti. Ciò dovrebbe valere anche per la scuola secondaria, ma, a causa di alcune discontinuità come quella dei tre mesi estivi, si hanno percorsi di studio paragonabili a una linea spezzata, con dei salti contenutistici e talvolta metodologici. Gli studiosi descrivono una continuità verticale, che riguarda la progressione degli apprendimenti in senso diacronico, e un’altra di tipo orizzontale, sincronica, che prevede la ricomposizione, dal punto di vista del bambino, degli ambienti di apprendimento famigliari e scolastici.
Si pone anche una specifica continuità orizzontale nelle scuole secondarie, in vista del superamento della logica divisiva dei saperi disciplinari. Essa, infine, trova riconoscimento in molti atti normativi, cui seguono alcune scelte didattiche e organizzative. Le scuole, infatti, si attrezzano per promuovere la continuità nel passaggio tra i vari ordini di scuola: dal nido alla materna, dalla primaria a quella secondaria di primo grado e, infine, da quest’ultima a quella superiore. Laddove sia possibile, essa è prevista anche per gli insegnanti di sostegno con gli alunni disabili, che non dovrebbero cambiare di anno in anno. In sintesi, Dewey suggerisce che proprio la continuità distingue ciò che è educativo da ciò che non lo è. La domanda, dunque, è la seguente: i tre mesi estivi sono funzionali all’apprendimento?
Considerati gli argomenti testé esposti, la risposta è negativa. Tuttavia, è opportuno rimanere ancora sulla domanda e analizzarla dal punto di vista di quel lasso temporale decisamente lungo. Occorre, cioè, indagare come siano fruiti i tre mesi, particolarmente dagli adolescenti. Che tempo è, per loro, quello delle vacanze?
Be’, se stessimo a quello che ci hanno raccontato gli esperti (Ricolfi, Zoja, Lucangeli…), nel convegno di Firenze dello scorso febbraio sui decreti delegati (qui la registrazione), dovremmo convenire che non è un tempo di rilassamento. I segni del disagio giovanile sono molteplici e vanno dai disturbi alimentari alle fantasie e ideazioni suicidali (il suicidio è la seconda causa di morte per gli adolescenti ed è in crescita). La socialità diminuisce, mentre si diffondono le connessioni Internet, succedanee della relazionalità che è essenzialmente fisica. Si ha anche il recesso delle esperienze sessuali, sostituite dal consumo online di immagini porno; prevale un clima di introversione e di ritiro, spesso all’interno delle camerette, il quale non a caso viene qualificato come “sociale”. Ho l’impressione che tutti questi elementi risaltino prepotentemente, nella loro negatività, proprio nel periodo estivo, in cui si sperimentano attese frustrate di benessere.
La relazionalità molecolare si riscontra visivamente anche all’entrata mattutina a scuola, quando i giovani si assiepano di fronte all’ingresso e attendono, senza parlare, il suono della campanella, spippolando ciascuno il suo cellulare. Una folla solitaria, avrebbe detto Riesman.
Prevenendo eventuali obiezioni, mi scuso per le generalizzazioni del mio ragionamento che indubbiamente fanno torto ai casi particolari, ma che sono inevitabili per tenere assieme il costrutto del discorso. Alcuni, poi, osserveranno, forse con educato dileggio, che se una tale descrizione dei giovani avesse valenza euristica, saremmo all’Apocalisse. Ciò è vero, ma l’apocalisse c’è già stata ed essa, secondo Byung Chu Han, ha comportato null’altro che il disvelamento (secondo il suo senso etimologico) di come abbiamo smesso di vivere il reale a favore delle non-cose, cioè dei dati e delle informazioni che inondano le nostre esistenze online, sostituendo i fatti e la biologia. Oggi, dunque, registriamo solamente gli effetti dell’apocalisse, che nell’infodemia, cioè nella pandemia informativa corrente, è destinata a essere metabolizzata come qualsiasi altra notizia di più modesta portata. Tutto ciò prelude a nuovi equilibri soggettivi e non è detto che sia negativo, ma, in questa fase di transizione, la spensieratezza dei giovani di alcuni decenni fa (in parte frutto edulcorato dei ricordi di gioventù) non esiste più.
In conclusione, i tre mesi non sono più quelli della noia arricchente, né nella versione del flâneur di Baudelaire, celebrato da Benjamin come lo scopritore critico della modernità, né in quella di Heidegger che definisce la noia, nella sua metafisica, come uno stato profondo e radicale, riscontrando tuttavia, in essa, il possibile preludio della vita autentica. Forse ci si avvicina di più alla inerzia o inazione di cui parla Byun Chul Han in un suo recente saggio, che pare opporsi al principio dominante di prestazione, favorendo il recupero della nostra umanità (die Untätigkeit bildet das Humanum).
Fatto è che, se questa è la condizione esistenziale diffusa nel mondo dei giovani, il loro abbandono per tre mesi, da parte della scuola, è del tutto ingiustificato. Andando oltre, vorrei aggiungere che è lo stesso mestiere d’insegnante a dover cambiare. Le diciotto ore di cattedra (alle superiori) non definiscono più l’adempimento corretto e sufficiente del ruolo, ancorché lo stipendio sia scarso. Oggi i giovani devono essere cercati dalla scuola, interpellati in maniera inesausta, non solo con le parole, anche a fronte di silenti indifferenze. La prestazione dovuta delle ore di cattedra non è più garante della correttezza deontologica dell’insegnamento, perché quelle ore, di per sé, non garantiscono di penetrare la coltre dell’introversione giovanile. E se questo non accade, non è lecito fermarsi alla logica formale delle mansioni.
Se così fosse, non vi sarà mai un lavoro di insegnamento professionale. Si può obiettare che esiste un modo alternativo per affrontare la questione che è quello di trattare gli adolescenti con severità, nello stesso modo con il quale noi adulti siamo (o supponiamo di essere) stati trattati. Ma quella rigidità oggi non serve a nulla, a fronte di un numero elevato di abbandoni scolastici e di una soggettività adolescenziale abituata al ritiro in sé stessa.
Un’ultima cosa, riguardo al fatto che i genitori, quando lavorano nei mesi estivi, necessitano dell’aiuto degli insegnanti. Si obietta che la scuola non è babysitteraggio. Questo è vero, e infatti la frequenza della scuola, nei mesi estivi, non dovrebbe far cessare la missione educativa. Quanto poi al fatto che essa sia un aiuto ai genitori, non vedo cosa ci sia di ostativo a un tale compito. Credo semplicemente che esso debba essere considerato come un servizio che gli insegnanti offrono giustamente al Paese.
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