Con la sentenza numero 17965 la quinta sezione penale della Corte di Cassazione è intervenuta in materia di eutanasia riferendosi alla condanna a carico di Emilio Coveri – presidente dell’associazione Exit Italia che promuove il ricorso al suicidio assistito – da parte della Corte d’appello di Catania. Un caso attorno al quale si è ampiamente discusso, sia per la decisione di assolvere l’imputato nel primo grado di giudizio che per la condanna inflitta, con la contestazione di ‘istigazione al suicidio‘ per aver fornito alla 47enne Alessandra Giordano le informazioni sulle cliniche che praticano eutanasia in Svizzera.
Soffermandoci brevemente sul caso in sé, tutto iniziò nel 2019 quando la donna affetta da tempo da una grave forma di depressione dovuta alla sindrome di Eagel – che non era terminale – decise di recarsi in Svizzera dopo essersi iscritta all’associazione Exit Italia per richiedere l’eutanasia. Per la procura Coveri aveva “fornito un contributo causale idoneo a rafforzare un proposito suicidiario prima incerto e titubante”, tesi accolta dalla Corte d’appello che inflisse contro l’uomo una condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione.
Il parere della Corte di Cassazione: “Non c’è nesso causale tra l’eutanasia e l’istigazione al suicidio”
Salto avanti al 7 maggio, quando sulla condanna contro Coveri si è espressa la Corte di Cassazione che ha deciso di assolverlo escludendo che la sua condotta sia stata decisiva nella scelta della vittima di ricorrere all’eutanasia. Andando per ordine, infatti, la suprema corte ha ritenuto la sentenza dei colleghi catanesi piena di “lacune e fratture logiche” soprattutto perché per l’accusa di istigazione al suicidio “l’azione autolesiva del soggetto passivo – la Giordano – e la condotta del soggetto attivo del reato deve risolversi nella determinazione o nel rafforzamento dell’altrui volontà suicida”.
Coveri secondo la Corte avrebbe fornito alla donna le informazioni per recarsi il Svizzera ed ottenere l’eutanasia, ma di fatto dalle ricostruzioni rese non risulta che le sue parole siano state “orientate a rafforzare la volontà della Giordano”, rappresentando “piuttosto la generica manifestazione delle astratte opinioni dell’imputato sul fine vita”. Inoltre, la Cassazione ha notato come il dialogo tra imputato e vittima sia avvenuto nel dicembre del 2017, mentre il ricorso all’eutanasia da parte della donna risale al marzo del 2019 e non c’è – dunque – un “rilevante intervallo temporale” che faccia pensare che il primo sia conseguenza del secondo: anche perché, sottolinea la Corte, da agosto 2018 tra Exit Italia e la Giordano non ci sono stati più contatti di alcun tipo.
Una sentenza come quella catanese, conclude la Cassazione nella sua lunga memoria, aprirebbe le porte ad un’interpretazione troppo astratta del concetto di ‘istigazione al suicidio’ che rischia di includere – oltre al caso in sé sull’eutanasia di Giordano – “qualsiasi condotta umana che abbia comunque suscitato o rafforzato l’altrui volontà suicidaria comunque liberamente formatasi”.