Una classe sgangherata, niente eccellenze, tanti bisogni educativi speciali: una classe come tante della scuola dell’obbligo italiana. E un’insegnante che propone un percorso che ha già fatto con un’altra classe e che su queste pagine abbiamo già raccontato: leggere un libro insieme alle altre classi, guidati dallo stesso professore che aveva svolto questa attività per molti anni nella stessa scuola. Sempre lui, Giuseppe. Terminato questo percorso la professoressa chiede ai suoi ragazzi di scrivere una lettera in cui proporre un giudizio sull’esperienza di narrativa vissuta nel corso del triennio, ricordando che può essere anche l’occasione per ringraziare il vecchio prof Giuseppe per quello che ha fatto con loro. Giuseppe mi ha girato il file con queste lettere.
Non c’è nessuna voglia di autocelebrazione in lui quando mi invia la mail, soltanto la commozione di trovarsi di fronte a un regalo enorme che la professoressa gli ha fatto. E la certezza di leggere in quelle righe, ancora una volta, la risposta ai tanti interrogativi che sulla scuola e sul suo valore continuamente ci si pone. Indicazioni e curricola, obiettivi didattici e soft skills, educazione alla speranza, disagio e strategie dell’orientamento, progetti estivi e intelligenza artificiale di cui si parla anche su queste pagine negli ultimi tempi risultano essere parole piuttosto altisonanti e spesso vuote, ma trovano in queste righe di studenti di 14 anni un senso nuovo e pieno. Così ho pensato io. Per questo credo valga la pena leggerli e ascoltarli, soprattutto perché in queste lettere confessano di essersi finalmente messi in discussione, di essere riusciti a dire io, a leggersi dentro, leggendo le pagine di un libro. E le riporto così come sono, compresi gli errori – pochi in verità – che facilmente possiamo loro perdonare in considerazione della passione con cui scrivono e che consentirà loro di correggere presto anche quegli errori.
Cominciamo da Giulia che scrive così:
“Caro professore, le scrivo per ringraziarla e darle il mio giudizio sul corso di narrativa. È ironico pensare come è finita e come è cominciata la mia esperienza di narrativa condivisa. Tutto è iniziato con Il giardino segreto, in prima media. Attraverso quel libro ci costringeva a svelare il giardino di emozioni nascosto nel nostro cuore, non solo a noi stessi, ma anche a un gruppo di sconosciuti, cosa che io non volevo fare, non perché mi vergognassi così tanto a leggere davanti a tutti, ma perché forse, senza neanche saperlo, non volevo sapere io stessa cosa c’era dentro di me. Inoltre, temevo che ciò che di più importante avevo da raccontare risultasse inutile e noioso. In seconda e in terza media cambiai del tutto giudizio sul corso di narrativa, perché avevo trovato qualcosa di inestimabile: la passione per la scrittura, che vedevo ormai come un semino d’oro da coltivare fino a farlo diventare albero.
Tuttavia, iniziai a reputare importante il corso di narrativa non solo per ciò che mi aveva dato, ma anche per ciò in cui consisteva, ovvero mettersi a nudo davanti a tutti, conoscere sé stessi e chi ci circonda, porsi domande sulla propria esistenza e rispondere a queste incognite guardando dentro noi stessi. Inoltre, ascoltando i temi degli altri, o semplicemente leggendo il libro tutti insieme, ci si può sentire capiti, o trovare la soluzione ad alcuni nostri problemi. Il corso di narrativa, oltre tutto, insegna anche quanto si possa imparare dagli altri; a volte le persone possono essere uno specchio in cui ti vedi riflesso, possono essere un esempio da seguire, o semplicemente una fonte di ispirazione. Di tanto in tanto, chi ci sta intorno può essere lo spettacolo più emozionante da ammirare.
La ringrazio per aver diretto il corso di narrativa condivisa perché adesso, grazie ai suoi insegnamenti, ho anche un’idea più precisa di chi sono e di chi voglio diventare. Spero che sarà possibile continuare il corso anche negli anni seguenti e sono curiosa di sapere quanti altri ragazzi sbocceranno grazie a questo corso, quando io me ne sarò già andata da questa scuola come ha fatto lei qualche anno fa. Anche se alla fine, sappiamo entrambi che un pezzo di cuore resta sempre intrappolato fra questi banchi. Grazie ancora, arrivederci”.
Ecco, ce ne sarebbero ancora di lettere, o almeno brani di qualcuna di quelle che la professoressa, benedetta pure lei, ha fatto scrivere ai suoi alunni e ha inviato a Giuseppe. Ci vorrebbe altro spazio, varrebbe davvero la pena di leggerle tutte. Intanto Giuseppe sa che la celebrazione qui non c’entra. C’entra la possibilità di capire un po’ di più di che cosa hanno bisogno davvero i ragazzi. Che per una volta, qui, sono loro a raccontare. Quando qualcuno li vorrà ascoltare?
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