“I’m ten years burning down the road nowhere to run ain’t got nowhere to go” (sono dieci anni che brucio lungo la strada senza nessun posto dove scappare, non ho nessun posto dove andare). Se allora, quando fu pubblicato l’album Born in the Usa dalla cui title track sono tratti questi versi, Bruce Springsteen faceva riferimento alla prima parte della sua carriera iniziata, discograficamente, appunto circa 10 anni prima – in realtà 11 – oggi gli anni complessivamente passati sono 50 e quel disco compie 40 anni. Ma se allora il cantante esprimeva un senso di incertezza, di confusione, di non sapere più dove stava andando, oggi Springsteen sa benissimo chi è e dove sta andando: verso la parte finale di una carriera e di una vita talmente gloriosa (a proposito di “glory days” altra canzone in cui poco più che trentenne si vedeva anziano e nostalgico della gioventù perduta) e senza paragoni nella storia del rock, che sa bene dove sta andando. Nessuno più come lui.
Eppure quel disco, riascoltato e analizzato oggi, che segnò il suo definitivo trionfo mondiale, che lo fece diventare la super-super star degli anni 80, infrangendo ogni barriera di gradimento e di vendite, mostra tanti angoli ancora nascosti o passati inosservati. A cominciare dalla storica copertina: una immagine della fotografa Annie Leibovitz che mostra quelle che furono definite “le più belle chiappe del rock’n’roll”, un sedere insomma, davanti a una bandiera americana. Osservandola senza l’aurea iconica di sfrontatezza che ha assunto nel tempo, con quel braccio destro che va sulla parte anteriore dei jeans, sembrerebbe qualcuno che sta urinando sulla bandiera americana.
Born in the Usa è infatti un disco pieno di contraddizioni e di indicazioni poco chiare, è una sorta di grido di aiuto nascosto degli arrangiamenti pompati e quasi dance, un inchino alle tendenze sonore di quel decennio, una svendita, una concessione per far breccia in un pubblico trasversale che ha però un collegamento evidente con il grande disco “tenebroso” dello stesso artista, Nebraska.
È curioso infatti che il brano di cui Springsteen era meno convinto al momento di pubblicare il disco non fosse la tanto criticata Dancin’ in the dark, che il suo manager Jon Landau lo spinse a comporre per avere “un hit single” e che lui compose di malavoglia dopo avergli urlato dietro “scrivitela tu”. Il video clip poi fu talmente imbarazzante che ancora oggi Springsteen racconta di come i suoi figli gli avessero detto, “papà per favore spegni la televisione, fai pena”. Filmato durante un vero concerto, vedeva un artista tutto “leccato” con un improbabile ciuffo alla Bill Hailey sulla fronte, fare il piacione invitando una ragazzina sul palco a ballare con lui (la futura attrice di grande successo Courteney Cox), totalmente incapace di andare a tempo e di ballare. Non era lo Springsteen “prigioniero del rock’n’roll” che i suoi fan avevano ammirato con il cuore in gola durante la devastante esibizione al Madison Square Garden solo pochi anni prima, nel 1979.
Il brano, uscito a maggio 1984, come singolo trainante del disco non ancora pubblicato, divenne veramente un hit single come voleva Landau e aprì la strada ad altri cinque successivi singoli tratti dal disco, altrettanti videoclip e tre remix che si ascoltavano in tutte le discoteche, una fucina di successi che manco Elvis ai suoi tempi migliori.
No, il brano che metteva a disagio Springsteen era quella che tutti consideriamo una delle sue più belle e sincere, commoventi e romantiche canzoni: No surrender.
In particolare il cantante era dubbioso dei suoi ultimi versi:
Now on the street tonight the lights grow dim
The walls of my room are closing in
There’s a war outside still raging
You say it ain’t ours anymore to win
I want to sleep beneath peaceful skies in my lover’s bed
With a wide open country in my eyes
And these romantic dreams in my head
Si avvertiva qualcosa di strano mentre cantava queste parole. Chi potrebbe essere così ciecamente ottimista? Durante il tour di Born in the U.S.A., che durò 16 mesi e portò la E Street Band davanti al pubblico più vasto che avesse mai visto, Springsteen provò a riorganizzare l’arrangiamento principale come una tenera ballata acustica; riscrisse il verso e cambiò il messaggio. Alla fine del tour, il brano appariva solo sporadicamente nelle scalette. “Era una canzone con cui mi sentivo a disagio”, scrisse anni dopo. “Non si resiste e si trionfa sempre nella vita. Se scendi a compromessi, subisci la sconfitta; scivoli nelle zone grigie della vita”.
Oggi la canzone ha recuperato ancora un altro significato: Springsteen l’ha usata nel 2023 come brano di apertura di tutti i concerti in una versione potente che non lasciava prigionieri e ancora la esegue, con un senso di abbraccio con il suo pubblico e una commovente dedica: ci siamo tutti in questa vita, ci siamo tutti insieme e ci barcameniamo tutti per portare alla sera di ogni giorno qualcosa a casa, ma se restiamo uniti ce la possiamo fare. Questo è il significato che la canzone ha assunto. Eppure fu inserita nel disco all’ultimo minuto.
Anche Dancin’ in the dark nonostante l’immagine glam che il video le aveva appioppato, è una canzone che se si ascolta con attenzione il testo, piuttosto che di gioiosa innocenza, parla dei deliri di un uomo che sta seriamente pensando di uccidersi. E tuti sanno come Born in the Usa ci mise anni prima che se ne afferrasse il vero significato: se Ronald Reagan aveva cercato di utilizzarla per la sua campagna elettorale perché convinto rappresentasse l’orgoglio americano, era invece la storia di un perdente, un ex soldato tornato dal Vietnam che non era più riuscito a reinserirsi nella vita americana, anzi ne era stato allontanato perché nessun americano vuole sentirsi dire di aver perso, che sia una guerra o un lavoro.
Oggi tutti sanno che Born in the Usa venne registrato mentre Springsteen stava terminando Nebraska. C’è più di quanto avessimo capito allora in comune tra i due album.
Alcune delle canzoni avevano avuto origine dallo stesso demo tape che ha prodotto Nebraska mentre altre sono state scritte dopo l’uscita di quell’album. Le sessioni avevano prodotto tra le 70 e le 90 canzoni; alcune furono pubblicate come lati B mentre altre in seguito furono pubblicate su compilation.
Born in the U.S.A. è un album rock and roll con un suono più influenzato dal pop rispetto ai precedenti album di Springsteen. La sua produzione è tipica della musica rock tradizionale degli anni 80, con un uso prominente di sintetizzatori e batteria super pompata. I testi contrastano con il suono dell’album e continuano i temi dei dischi precedenti, in particolare Nebraska. Gli argomenti includono lotte della classe operaia, disillusione, patriottismo e relazioni personali, mentre diversi brani contengono umorismo.
Born in the Usa era già pronto per essere pubblicato quando fu deciso di pubblicare Nebraska. In quel momento storico Springsteen fresco trentenne e dieci anni dopo l’inizio della sua carriera discografica, si trovava in un periodo di introspezione e ricerca disperata. Per la prima volta dopo l’uscita di un album, non andò in tournée per promuovere Nebraska. Andò invece in vacanza, facendo un viaggio attraverso il Paese con un amico. Il tipo di fuga su strada aperta di cui cantava in modo così convincente, tuttavia, finì per essere un punto di rottura emotivo. Mentre il viaggio lo portava dal Jersey, attraverso il Sud, e infine in una nuova casa che aveva acquistato sulle colline di Hollywood, Springsteen si ritrovò schiacciato da ondate di disperazione e depressione debilitante: crollando in lacrime, sentendosi isolato, perdendo il contatto con qualunque slancio lo aveva tenuto in fiamme per tutto questo tempo.
In risposta, si affidò alla terapia. Andava anche in palestra. E piano piano divenne un altro uomo.
Gradualmente, il disadattato magro e trasandato del lungomare del Jersey cominciò ad assomigliare al protagonista di un film d’azione, una sorta di Rambo il cui primo film si adattava perfettamente alla title-track: qualcuno che avrebbe potuto tranquillamente interpretare un robusto meccanico d’auto in un video musicale (I’m on fire) e avere il suo culo fotografato sulla copertina di un album.
A causa del suo successo universale, la brillantezza anni 80 di Born in the U.S.A. può essere in qualche modo sopravvalutata. È un disco incontaminato e preciso i cui pad sintetizzati, batteria massiccia e voce centrale rappresentano le qualità distintive della produzione rock mainstream del decennio. Ma ascoltandolo adesso, colpisce quanto la musica suoni fisica e viva. La maggior parte delle canzoni sono state registrate dal vivo dalla band in poche riprese, con Springsteen che urlava, urlava e urlava fuori dal microfono. E la scrittura, che fonde le narrazioni dettagliate di Nebraska con le strutture pop più serrate di The River, è meditata ed emotiva come qualsiasi altro suo materiale meno raffinato.
Un brano, Cover me, era stato scritto perché lo interpretasse Donna Summer (“Non mi piaceva il velato razzismo del movimento anti-disco” avrebbe detto Springsteen). Downbound train contiene tutta la depressione suicida di Nebraska; Working on the Highway e Darlington County, con il loro tessuto rockabilly e honky tonk, dimostrano come Springsteen fosse passato indenne dell’ondata della British Invasion per rimanere attaccato al suono più verace del suo Paese; Glory days è la celebrazione dell’innocenza e della bellezza della gioventù che si scontrano con il diventare adulti, con un tempo di irresistibile rock’n roll. My hometown conclude il disco con la profonda malinconia ma anche il senso di speranza di chi accompagna il proprio figlio sulle strade che lo hanno visto diventare uomo, nel bene e nel male.
Quei “giovani ragazzi romantici” dei suoi primi due album, provati dai ritmi della vita lavorativa che si incontrano nel terzo, quarto e quinto album e che dopo aver affrontato la disperazione del sesto, sono ancora vivi in questo, il settimo, con il loro senso dell’umorismo e la loro determinazione intatta. Born in the Usa fu la loro apoteosi, il luogo dove rinnovarono il loro impegno e dove Springsteen si ricordò di essere una star del rock & roll.
Alla fine di tutto, per come si possa aver vissuto questo disco nel momento in cui uscì o come lo si possa rianalizzare oggi, contiene un verso che è abbastanza per giustificarlo, un verso che probabilmente è il più grande mai incluso in una canzone rock: “Abbiamo imparato di più da un disco di tre minuti, di quanto abbiamo mai imparato a scuola”.
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