Visita di Stato a Pechino con Putin accolto come non mai dal punto di vista protocollare. Ma il gran “clangor di buccine” nasconde due politiche di lungo periodo degli interessi nazionali prevalenti.
La Russia – in una fase precisa della sua storia imperiale – ricerca un’estensione dell’economia di guerra nuovamente (come nel periodo post-Nep degli anni Trenta del Novecento) all’ordine del giorno – come ben rappresenta il cambio recentissimo del ministro che è a capo del complesso militar-politico-industriale che si avvia a essere il punto archetipale di raggrumamento delle classi dirigenti russe. L’estensione di potenza può raggiungersi con tutti gli interlocutori che aspirano alla non-inclusione politica – non economica, si badi bene – nel dominio anglosferico.
La Cina, invece, è fortemente insediata nei capitalismi teutonico – per quanto concerne l’industria tradizionale – e nordamericano – per quel che riguarda tanto il neocapitalismo delle ultime rivoluzioni industriali, quanto quello finanziario, che vive della potenza demografica cinese e della necessità della rendita finanziaria di ampliare sempre più il bacino di raccolta (e le bad banks cinesi sono gli stagni di coltura più congeniali). E per questo la Cina aspira a candidarsi a essere quello che ancora non è: una potenza mondiale “celeste”, ossia dotata di quella legittimazione che non le devono concedere i barbari, ma la sola sua forza, la sola sua capacità di includere via via sempre più aree del mondo in cui far valere la sua potenza.
La Cina minaccia la guerra ma persegue la pace quando quest’ultima serve per rafforzare il suo potere di condizionamento mondiale. Oggi questo significa proporsi come mediatore nei due plessi a “forte tremore da sregolazione internazionale”: il Grande Medio Oriente e il plesso imperiale e nazionalistico russo-ucraino oggi sottoposto alle tensioni imperialistiche russe.
Putin è in vantaggio momentaneo sul fronte bellico e per questo rende manifeste le pulsioni verso una negoziazione sul fronte del conflitto. La Cina ricerca la negoziazione russo-ucraina per autolegittimarsi sul fronte delle relazioni internazionali. Queste due logiche sono favorite da due movimenti del complesso di potenza mondiale.
Il primo è quello scatenato dall’Anabasi Usa iniziata con il ritiro dall’Afghanistan e continuata con la reiterata minaccia di non sostenere più Israele nella risposta militare (forse “confusa e inefficace” sul piano anti-Hamas, ma legittima dinanzi al fine genocidario di quel nazionalismo islamico). Il secondo è il vuoto diplomatico dell’Ue che la Nato non colma ma invece aggrava perché mette a nudo tutte le divisioni tra le nazioni dell’Ue e i loro sempre più diversi interessi nazionali prevalenti dinanzi a cui svettano – guidati dal Regno Unito – i nuovi Stati archetipali europei: i Baltici, la Grande Polonia risorta dopo quasi un secolo, quelli post-comunisti del plesso che dalle colline bulgare va alle coste del Mare del Nord e di Azov.
In questo contesto i diversi interessi della Russia e della Cina tacciono e fanno prevalere una logica negoziale. Ma non servirà a nulla, perché il suo affermarsi comporterebbe una nuova ritirata Usa dal potere mondiale con una delegittimazione anglosferica potente che potrebbe far rovinare ancora più il mondo sulla china della guerra nucleare.
Il filo del gomitolo ormai è nelle mani deboli delle medie potenze e quindi solo dell’Ucraina e di una Russia che va trasformandosi in una potenza combattente sempre più incontrollabile. Occorre rinunciare a un disegno fondato sul dominio a somma zero delle parti in lotta.
La metafora che tutto spiega potrebbe essere quella che occorrerebbe passare dall’agitazione e dalla propaganda alla politica, ma è proprio questa che manca: e la politica in questo caso è soltanto il realismo diplomatico. Ma questi sono i tempi della geopolitica…
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