“Meno giovani, meno futuro” è il titolo del par. 4.2.1 del Rapporto Istat 2024, presentato il 15 maggio a Roma, ricco come di consueto di dati, informazioni e mappe tematiche di decisivo interesse per qualsiasi percorso di policy making per lo sviluppo del nostro Paese.
Per certi versi si tratta di un segnale di allarme non così nuovo, da quando finalmente anche nel dibattito pubblico “la questione demografica è nell’agenda politica” (sempre parole del Rapporto Istat). Quella che però sembra nuova – e stimolante – è la collocazione del paragrafo citato, inserito nel capitolo 4, “L’Italia dei territori: sfide e potenzialità”, nel paragrafo “Giovani e anziani: risorse per i territori”.
In qualche modo emerge qui un doppio criterio interpretativo: da un lato, la struttura demografica e le scelte delle varie generazioni sono strettamente connesse alla qualità complessiva del contesto territoriale in cui si vive (servizi, coesione sociale, mobilità, sviluppo economico, ecc.); in secondo luogo le generazioni vanno lette “insieme”, intrecciando la condizione di ciascuna nelle interazioni con le altre, senza costruire separazioni, o peggio contrapposizioni (del tipo “troppi anziani, non ci sono più risorse per i bambini e per i giovani”).
Si riescono così a comprendere meglio anche i dati demografici generazionali, già ampiamente ripresi dai media: ad esempio “in vent’anni abbiamo 3 milioni di giovani in meno”: dato vero, e certamente non confortante, ma che dal punto di vista demografico dipende soprattutto dalle differenze delle coorti demografiche degli ultimi decenni: vent’anni fa erano giovani le generazioni più numerose del secondo Dopoguerra, i figli del baby boom, quando in un solo anno – nel 1964 – erano nati oltre un milione di bambini. Oggi hanno trent’anni i nati nel 1994, che erano poco meno di 550mila. Praticamente la metà, in trent’anni. E oggi i nati sono meno di 400mila; tra trent’anni, i giovani saranno ancora meno!
In altre parole, le nascite dei decenni scorsi hanno oggi un impatto molto forte sull’equilibrio socio-demografico, e se non si riflette e investe sulla natalità oggi – in cui già ci sono problemi di squilibrio intergenerazionale – le cose non potranno che peggiorare, tra trent’anni.
Eppure questi dati erano sotto gli occhi di tutti anche negli anni Novanta: mi spiace dover ricordare che già il Rapporto Cisf 1991 (!) poneva a tema con grande urgenza il nodo dell’equità tra le generazioni, ma da allora a oggi non è che le scelte politiche abbiamo davvero cambiato direzione!
Per tornare alla fotografia statistica della popolazione italiana proposta dall’Istat, molti sono i dati interessanti, e conviene davvero rimandare ad una loro lettura analitica (sul sito Istat c’è sia il Rapporto integrale che alcune “pillole” informative, molto efficaci). Qui limitiamoci a segnalare tre punti specifici, che hanno a che fare con giovani e futuro.
1. In primo luogo il grave problema della eccessiva presenza di “lavoro povero”, insieme alla scarsa presenza di “lavoro decente”, soprattutto per i giovani: dai dati Istat si rileva che il sistema economico Italia cresce, l’occupazione cresce – in modo per certi versi insperato, anche come lavoro a tempo indeterminato –, ma insieme aumenta anche il numero di poveri e di famiglie povere, oltre ad un aumento delle disuguaglianze. La stessa fiammata dell’inflazione ha pesato maggiormente sui redditi medio-bassi, che sono costretti a spendere su beni di prima necessità (alimenti, energia, casa), sui quali l’aumento dei costi è stato più pesante (e permanente). Insomma, se si vuole costruire più futuro attraverso un maggior sostegno ai più giovani, occorrono nuove e decise politiche del lavoro, soprattutto per l’ingresso nella vita attiva.
2. Un secondo elemento riguarda la permanenza di uno zoccolo duro di quasi due milioni di persone, tra i 15 e il 34 anni, che rimangono “fuori dal gioco” (sinteticamente, i famosi Neet), fuori dal mercato del lavoro (nemmeno alla ricerca di esso) e fuori anche da ogni percorso formativo. Sono risorse preziose per il Paese, ma soprattutto sono persone nella fase cruciale della loro vita, negli anni in cui si gioca il loro futuro personale e il loro progetto di vita. Occorre allora una rinnovata attenzione e un rinnovato investimento proprio su questo periodo di cerniera tra studio e vita attiva, che riguarda tutti gli attori sociali: la scuola, il mercato del lavoro, le politiche abitative, le famiglie, e i giovani stessi. Per questo servono ovviamente maggiori risorse finanziarie, sia pubbliche che private. Ma prima di tutto serve un cambio di prospettiva: occorre “ripartire dai giovani”, se si vuole far ripartire il Paese. Occorre cioè sostenere con maggiore attenzione il rischio di progetto e di creatività che questa fase di vita esige da parte di ciascuna persona che entra nella vita attiva, intervenendo sugli ostacoli strutturali e culturali. Tocca alla società, ma tocca anche a ciascuna persona.
3. Da ultimo, conviene segnalare che anche il tema specifico della natalità trova proprio nel “pianeta giovani” il punto di innesco più significativo ed irrinunciabile: bloccare l’inverno demografico e promuovere un maggiore equilibrio intergenerazionale dipende infatti direttamente dalla capacità di speranza, di progetto e di futuro delle generazioni più giovani. Anche in questo caso, occorre un movimento congiunto: da un lato, servono interventi dello Stato a sostegno della genitorialità, eliminando gli ostacoli ancora presenti: più servizi, più asili nido, più conciliazione famiglia lavoro, più sostegno al lavoro femminile, più sostegno agli uomini che vogliono fare i padri, politiche fiscali per sostenere il costo dei figli. Ma serve anche un rinnovato movimento di speranza e di futuro da parte dei giovani, maschi e femmine, che vogliano scommettere la propria felicità anche sulla grande e imprevedibile sfida del diventare padri e madri. Ricostruendo così, insieme al proprio progetto di vita, anche il futuro dell’Italia.
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