Sono stato molto colpito dalla decisione di mio figlio di scegliere, come argomento principale per la sua tesina di terza media, la figura di Giovanni Falcone. Al contempo mi ha emozionato immaginare quanto lui, Falcone, possa sorridere sornione nel costatare che non è morto invano e che giovani generazioni, a distanza di oltre trent’anni, lo conoscano e ne facciano oggetto di studio.
Nell’aiutare mio figlio a tratteggiare i suoi numerosi successi professionali, non ho potuto fare a meno, tuttavia, di evocare anche le sue cocenti sconfitte. Nessuna delle quali registrata nella lotta contro la mafia. Come pochi giorni fa l’ex ministro Claudio Martelli ha ricordato, è stata stesa una coltre inaccettabile sulle responsabilità dei suoi colleghi magistrati per la sua morte. Se infatti tutti continuano a evocare le sue strabilianti intuizioni, nessuno ricorda invece le parole pronunciate dal suo amico Paolo Borsellino un mese dopo l’assassinio (e venti giorni prima di essere a sua volta assassinato): “Nel ripercorrere le vicende della vita professionale di Falcone ci accorgiamo di come il Paese, lo Stato e la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a far morire Falcone nel gennaio del 1988”. Ed è proprio così.
Falcone sembrava all’apice della sua carriera dopo la sentenza del maxiprocesso. Fresco dello straordinario risultato conseguito con il primo riconoscimento giurisprudenziale sull’esistenza della mafia come un’organizzazione piramidale, era il candidato naturale per subentrare ad Antonino Caponnetto, colui che aveva “inventato” il pool antimafia, come capo dell’Ufficio istruzione di Palermo: un passaggio di testimone considerato naturale. Era certamente il magistrato più famoso al mondo: aveva sviluppato un nuovo metodo di indagine, il famoso “follow the money”, attraverso il quale, violando i santuari bancari, aveva ricostruito i legami e i flussi finanziari fra la mafia siciliana e quella americana, sviluppando per la prima vera volta la cooperazione giudiziaria internazionale con l’FBI, la magistratura francese, quella tedesca e quella svizzera. Ma era troppo in vista.
Inopinatamente, il CSM gli preferì Antonino Meli, un burocrate destinato ad altri incarichi di prestigio ma messo in concorrenza come candidato a quel ruolo da una manovra decisa dai suoi colleghi e messa in atto attraverso quelle correnti che per i successivi decenni segneranno la storia dell’organo di autogoverno della magistratura – verrebbe da dire quando Palamara era ancora un ragazzino imberbe. Quella prima, sonora bocciatura lo espose in modo estremo alla vendetta mafiosa, perché, come lui stesso affermò, “ora sanno che non mi vogliono neanche i miei”. Non a caso, ad agosto dello stesso anno subì l’attentato all’Addaura. Trentotto candelotti di dinamite vennero trovati dalla sua scorta sul vialetto che dall’abitazione portava alla spiaggia. A distanza di pochi mesi i due poliziotti testimoni furono assassinati in ciò che potremmo definire circostanze mai del tutte chiarite.
Purtroppo, la storia si ripeté poco dopo. Candidato per ricoprire il ruolo di procuratore capo di Palermo, anche in questo caso fu bocciato dal CSM; dove poi si candidò come consigliere, ottenendo appena 101 voti su 7.005. Un uomo solo e isolato, nonostante il suo genio, ovvero proprio a causa di ciò.
A fronte delle straordinarie vittorie ottenute contro la mafia, subì tre cocenti sconfitte, tutte consumate per mano dei suoi colleghi. Poi arrivò la chiamata dal ministro della Giustizia, Martelli, alla direzione generale degli Affari penali. E le sue intuizioni ripresero a segnare la storia processuale di questo Paese. In quel ruolo, ancor più palesemente vituperato dai suoi colleghi che ne contestavano la pericolosa compromissione con il potere politico, egli riuscì a conseguire risultati straordinari. In primis nella collaborazione internazionale. Fu inoltre varata la prima legge anti-racket per indurre a denunciare il pizzo. Costruì la DIA, centro interforze con specializzazione nella lotta alla mafia; poi la Direzione Nazionale Antimafia. Altra pietra dello scandalo. La magistratura osteggiò tenacemente la proposta al punto di proclamare, per la prima volta nella sua storia, l’astensione come forma di protesta estrema. La DNA invece, con la sua ramificazione nelle DDA territoriali, rappresentava la cristallizzazione del pool, ovvero gruppi di pubblici ministeri che oltre a condividere le informazioni, venivano applicati unicamente alle indagini e ai processi di criminalità, evitando così che un procuratore capo qualunque potesse disporre, come a lui toccò di subire, la parcellizzazione dei fascicoli di mafia. Una svolta epocale.
Digerita a fatica l’istituzione della DNA, si scatenò infine la lotta per la nomina di quello che allora veniva chiamato superprocuratore. Le principali correnti della magistratura cercarono nuovamente, per l’ennesima volta, di mettersi di traverso per scongiurare la sua nomina. Ci fu uno scontro durissimo, che vedeva bizzarramente la politica prendere le difese di Falcone, duramente contrastato dai suoi colleghi.
Poi, il 23 maggio 1992 venne ucciso a Capaci, insieme a sua moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, per mano di un commando di mafiosi, tutti condannati, che furono però avvertiti della sua partenza da Roma da una fonte rimasta ignota, sebbene egli viaggiasse con un aereo dei servizi segreti per ragioni di sicurezza.
Ebbene sì, senza temere la retorica, Falcone era un uomo con una grande visione, capace di guardare oltre, di abbattere le barriere oltre che la cupola di Cosa nostra. Non smise di essere innovatore neppure da morto. La rivoluzionaria legislazione sui collaboratori di giustizia fu una sua eredità; lui che, senza il sostegno di una specifica disciplina, aveva messo a frutto la collaborazione di Tommaso Buscetta come nessun altro magistrato sarà mai più capace di fare, garantendo al grande accusatore la protezione del governo americano. Anche il 41 bis ha rappresentato un suo riconoscimento postumo. Nella sua ricca eredità rientra anche l’approvazione all’unanimità, avvenuta nel 2020 a Vienna, del documento italiano che pone la metodologia di indagine di Falcone a fondamento della lotta alle mafie. È il primo atto di questo genere che valorizza il contributo di una singola personalità. D’altronde, pochi lo ricordano, dopo l’attentato di Capaci perfino il Senato americano approvò una risoluzione che definiva la morte di Falcone “una profonda perdita per l’Italia, per gli Stati Uniti, per il mondo”. Così come al FBI Academy campeggia nel Giardino della Memoria, adiacente all’ingresso, un busto in bronzo che raffigura il magistrato palermitano.
Come ha ricordato Martelli, dopo la sua morte tutti i suoi colleghi corsero a chiedere scusa, riconoscendogli quel tributo postumo che sa forse di beffa. Di certo, egli ha continuato a essere un pericolo per la mafia anche dopo la sua uccisione, diventando, merito più importante fra tutti, un simbolo per le future generazioni. Sta ai loro educatori non dimenticarlo.
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