Giorgia Meloni come reincarnazione di Benito Mussolini; il premierato come nuova legge liberticida; i senatori a vita come super-vigilanti democratici, cani da guardia dei parlamentari eletti e oggi martiri designati di un “nuovo fascismo”. Sono i teoremi narrativi leggibili in trasparenza nell’intervento che le senatrici a vita Elena Cattaneo e Liliana Segre hanno voluto firmare sul Corriere della Sera nel centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, ma soprattutto all’indomani dell’abolizione dei senatori a vita, approvata in prima lettura dal Senato.
In un’Italia pienamente democratica, Cattaneo e Segre sono del tutto legittimate a contestare il progetto di premierato, anche laddove si propone di cancellare le loro poltrone (non comunque quelle dove esse potranno rimanere sedute a vita). Appare invece dibattibile la scelta dell’arma dialettica (forse neppure la più efficace per sostenere la loro stessa causa).
Se nell’Italia odierna rimane un relitto dell’Italia pre-democratica – liberale e poi fascista – questo è rappresentato dal manipolo dei senatori a vita. Nell’Italia monarchica – retta dallo Statuto del 1848 – il Senato era la “camera alta” formata esclusivamente da “lord” di nomina regia. Il Senato restava, nei fatti, il robusto argine-contrappeso di lungo periodo all’avanzata impetuosa del parlamentarismo elettivo: sempre in sospetto di derive eversive agli occhi dell’establishment politico-istituzionale ed economico. Oltre ad alcuni appartenenti alla famiglia reale – membri di diritto –, le categorie che sfornarono oltre 2mila senatori del Regno d’Italia furono principalmente la magistratura, la diplomazia, l’esercito, l’alta burocrazia piuttosto che ex deputati ed ex ministri, scienziati riconosciuti dalle accademie regie, non da ultimo imprenditori e redditieri grandi contribuenti.
Dopo le elezioni dell’aprile 1924 fu nominato senatore Luigi Facta: il premier che – due anni prima – aveva chiesto al Re poteri eccezionali per fermare la marcia su Roma. Ma Vittorio Emanuele III glieli negò, Mussolini divenne capo del governo e Facta fu compensato con un seggio-sinecura in quella che era a tutti gli effetti la Camera personale di quel Re, battistrada del fascismo.
Nel Senato del 1924 non mancavano nomi di spicco dell’imprenditoria italiana come Giovan Battista Pirelli e Giovanni Agnelli, leaders di un’alta borghesia settentrionale che assecondò l’ascesa di Mussolini e di cui faceva parte anche un’esponente importante della comunità ebraica milanese come Margherita Sarfatti. Senatore era anche Luigi Albertini, direttore-editore del Corriere della Sera (poi peraltro travolto dal regime): era stato il regista politico-mediatico dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, a cavallo fra autoritarismo monarchico, grande industria e alti gradi dell’esercito. Senatore era pure Benedetto Croce, leader storico del liberalismo italiano: ma per censo.
Quel Senato del Regno – sostanzialmente gregario del Re nella tacita connivenza con il fascismo arrembante – non ha lasciato traccia visibile di preoccupazioni per le violenze fasciste che avevano contraddistinto il voto e neppure attenzioni in occasione dell’ultimo discorso di Matteotti. Né furono visibili – da quel Senato di “italiani illustri” – segnali di scandalo e reazione per l’omicidio del deputato socialista. Nessun senatore partecipò all’Aventino: ultimo, sterile tentativo dell’opposizione democratica di fermare Mussolini. Fu solo dopo il discorso del nuovo Duce all’ “aula sorda e grigia” che un senatore come Croce cominciò a prendere distanze nette dal nuovo regime, con il celebre “Manifesto degli intellettuali antifascisti” (ma ebbe ben poco seguito e fu sempre più mal tollerato in Senato, come racconta bene Mimmo Franzinelli nel suo recente Croce e il fascismo).
Dopo il suo personale ventennio di esilio in patria, il filosofo napoletano fu eletto deputato all’Assemblea costituente della nuova Repubblica. I costituenti giustificarono la permanenza in Parlamento di pochi senatori a vita – nominati dal Presidente della Repubblica, erede del Re come Capo dello Stato – con l’opportunità di avere nella sede della nuova sovranità popolare alcuni “saggi” di prestigio indiscutibile, tendenzialmente non legati alle forze politiche. In un’assemblea in cui sedevano molti altri protagonisti dell’Italia pre-fascista e della sua crisi – fra gli altri Luigi Einaudi, poi primo Presidente della Repubblica – erano però evidenti preoccupazioni più concrete: mantenere una qualche forma di presidio contro nuovi “eccessi” di sovranità parlamentare, laddove nell’immediato dopoguerra, la – vera o presunta – “minaccia eversiva” era diventata quella portata dalla sinistra socialcomunista.
Per questa ragione fra i primi nove senatori a vita – nominati da Einaudi – vi furono perfino dei “non antifascisti”: come l’economista Pietro Jannaccone, già accademico d’Italia, sottoposto a epurazione postbellica, sanata solo dall’intervento personale dell’amico Einaudi. Nessuno fra i primi senatori a vita – nella Repubblica “antifascista nata dalla Resistenza” – veniva dalle fila dell’opposizione ai governi centristi. Per vederne uno bisognerà attendere il 1970: quando il socialdemocratico Giuseppe Saragat nominò Pietro Nenni (solo anni dopo l’avvento del centrosinistra e solo dopo la designazione del presidente della Fiat Vittorio Valletta). Soltanto l’ex partigiano Sandro Pertini, nei primi anni 80, riuscì a concedere il laticlavio a due figure di limpida militanza nella sinistra antifascista come Eduardo De Filippo e Camilla Ravera. Un presidente di stretta estrazione politica come Francesco Cossiga chiamò quattro politici di professione (due suoi colleghi di partito) oltre a Gianni Agnelli, primo industriale del Paese.
La situazione di fondo non appare cambiata nella “seconda Repubblica”, pur caratterizzata da una nuova alternanza bipolare. Fra gli undici senatori a vita nominati da quattro presidenti dal 1992 ad oggi il solo Sergio Pininfarina (ex presidente di Confindustria ed ex europarlamentare nelle file liberali) può essere considerato non vicino al centrosinistra: ma, sicuramente, neppure vicino al centrodestra, che pure – quando Carlo Azeglio Ciampi nominò Pininfarina – aveva già vinto le elezioni nel 1994 e nel 2001. Il centrodestra ha poi rivinto nel 2008 e nel 2022, perso di un soffio nel 2006 e “non perso” nel 2013: eppure nessun senatore a vita “di centrodestra” è finora mai entrato a Palazzo Madama (esemplare il derby fra Claudio Abbado e Riccardo Muti, deciso senza esitazioni a favore del primo da Giorgio Napolitano). Nel frattempo con gli ultimi due presidenti – entrambi provenienti dal centrosinistra, entrambi riconfermati – il Quirinale ha accentuato il suo movimentismo “presidenzialista”: nel merito sempre identificato come non meglio definita “resistenza democratica”. Un contrasto prima a Silvio Berlusconi (Mario Monti ottenne il laticlavio a vita in occasione della sostanziale rimozione del Cavaliere nel 2011 da parte di Napolitano); poi cavalcando la retorica dell’“odio nero”, evocata un’ennesima volta da Catteneo e Segre.
Fin dal loro ricomparire sulla scena istituzionale dell’Italia repubblicana i senatori a vita hanno dunque mantenuto in misura non trascurabile un carattere distintivo di emanazione politico-istituzionale del presidente (“re”) in carica, a sua volta espressione di specifici riequilibri politico-istituzionali, talora controcorrente rispetto ai responsi elettorali. Nell’esperienza quotidiana i senatori a vita (sconosciuti alla democrazia americana e a quelle della Ue) non recitano, alla fine, da “probiviri-garanti” di un astratto “ordine democratico”: così come non lo erano un secolo fa nell’Italia liberale. E non sempre producono in Parlamento e nel Paese un autentico effetto-testimonianza da parte di “italiani autorevoli” (com’è stato invece certamente nel caso della senatrice Segre, nella Memoria della Shoah). Lungi dal concentrarsi sulla loro missione costituzionale, i senatori a vita finiscono così per portare spesso in Parlamento gli umori politici del Presidente in carica, che li nomina perché li sente vicini (se non proprio fedeli al Re come un secolo fa). In escalation di lungo periodo, i senatori a vita sembrano anzi emersi come veicoli privilegiati di un allargamento “presidenzialista” del ruolo del Quirinale, oltre i limiti previsti dalla Carta del 1948.
La questione resta politico-istituzionale, lontana da ogni ambiguità etico-politica. Di questi nodi politico-istituzionali il Parlamento italiano sta democraticamente discutendo oggi, su spinta di una maggioranza democraticamente eletta due anni fa e in un percorso disegnato da precise garanzie costituzionali. Difendere il ruolo dei senatori a vita è lecito e possibile, ma certamente non impugnando la memoria di un deputato ucciso un secolo fa (lui sì un vero “martire democratico”) nell’indifferenza dei senatori a vita di allora. Né appare realistico che possa essere una campagna di autodifesa di alcuni senatori a vita – nominati da una Presidenza inequivocabilmente messa sotto pressione dalla riforma – a generare oggi una credibile azione di contrasto al progetto di premierato.
Se i senatori a vita vogliono difendere il loro ruolo, non possono che tentare di rilanciarlo nell’Italia “qui e ora”. Per questo sul Sussidiario ci siamo già permessi di suggerire alla senatrice Segre la riattivazione della Commissione parlamentare straordinaria sui fenomeni di odio, che lei presiede dall’autunno 2019. Un progetto di legge “contro i fatti e i linguaggi di odio”, firmato da una senatrice a vita impegnata da sempre nel contrasto all’antisemitismo, sarebbe un argomento solido, prezioso e incontestabile sull’utilità di parlamentari “speciali”, con il compito di spronare con l’autorevolezza personale Camere talvolta disattente o pigre.
P.S.: Matteotti non è stato l’unico parlamentare italiano in carica ad essere barbaramente ucciso per motivi politici. Più di mezzo secolo dopo – già ben dentro l’Italia repubblicana – la stessa sorte tragica toccò ad Aldo Moro. Assassinato dalle Brigate rosse. Non nere.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.