Il secondo socio cinese di Pirelli per numero di azioni, Silk Road Fund, mercoledì sera ha deciso di vendere l’intera quota, il 9%, del produttore di pneumatici italiano. La decisione è stata sicuramente aiutata da un prezzo per azione che mercoledì era molto vicino ai massimi degli ultimi cinque anni; è impossibile però non collegare il disimpegno con la decisione del Governo italiano di esercitare la golden power sull’altro socio cinese di Pirelli, Sinochem, che detiene la maggioranza delle azioni del gruppo con una quota del 37%. La decisione dell’Esecutivo ha nei fatti escluso il socio cinese dalla governance di Pirelli impedendo, tra le altre cose, che potesse sottoporre una propria lista di membri per il rinnovo del cda. Le limitazioni ai poteri di Sinochem sono state sostanziali.
Camfin ieri ha arrotondato la propria partecipazione del 2,2%, ma anche dopo questo rafforzamento rimane con una quota poco superiore al 20%; Brembo possiede invece una quota del 6%. Ipotizzando che anche Sinochem possa alla fine decidere di vendere la sua quota, lo scenario che emerge è quello di una società con una compagine azionaria di azionisti di lungo periodo molto al di sotto del 50%. Sinochem non ha poteri decisionali, ma, si presume, potrebbe decidere di vendere con l’unico obiettivo di massimizzare il proprio profitto non avendo più obiettivi “industriali”.
Le vicende degli ultimi mesi di Stellantis suggeriscono che l’identità degli azionisti non è indifferente per le decisioni industriali delle società partecipate. Il sistema francese, ma non è l’unico, presidia le società industriali con grande applicazione; il non detto è che, in questo modo, si possono indirizzare le scelte su stabilimenti, centri di ricerca e occupazione delle società industriali. Ciò è tanto più importante in scenari di grande volatilità e ristrutturazione dei commerci come quello attuale.
La presenza di un socio cinese può essere scomoda dal punto di vista politico, o geopolitico, ma dal punto di vista del sistema industriale nazionale può, a certe condizioni, essere un valore aggiunto o quanto meno una soluzione migliore di altre. Per un socio cinese mantenere una base industriale “in loco” è un valore sia dal punto di vista economico, viste le distanze necessarie per un’eventuale sostituzione con esportazioni, sia dal punto di vista politico; in questo secondo caso più soffia il vento dei dazi e delle guerre commerciali, più la presenza locale consente di servire comunque quei mercati a prescindere dagli sviluppi politici.
Tutto questo è molto meno vero in caso di un socio europeo che non ha bisogno di una presenza industriale locale e ancora meno delle attività a più alto valore aggiunto come, per esempio, la ricerca e lo sviluppo. È la storia di Stellantis che, giustamente, non sa cosa farsene né degli stabilimenti italiani né, tantomeno, di centri di ricerca doppi.
La questione per il Governo italiano, cacciati con le buone o con le cattive i soci cinesi, non è risolta; appropriarsi di un marchio e delle quote di mercato di un gruppo leader, magari in un’ipotetica fase di rallentamento economico, è un valore nel medio lungo termine che apre tante possibilità industriali. Pirelli oggi è più contendibile di prima e ciò, per il sistema italiano, è insieme un’opportunità e un rischio. Da fuori, invece, soprattutto dall’Europa, è solo un’opportunità.
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