A partire dagli anni Cinquanta il pittore catalano Salvador Dalí (1904-1989) intensifica robustamente la sua produzione pittorica sui temi religiosi. Si tratta di un’aulica trasfigurazione del sacro nelle allucinazioni del moderno e tutto ciò ha un che di espiativo: Dalí, sempre più pop, sempre più eterno bon-vivant, si accoccola intorno alle pietà e alle croci per riscoprire ciò che di sé il tourbillon della fama gli sta facendo perdere. Sferzante sui media, nelle sue divagazioni estetizzanti è forse preso poco sul serio e quando gli chiedono chi sia realmente più ricco tra lui e Pablo Picasso (1881-1973) risponde con sfrontata sincerità: Picasso, perché è socialista.
Ora, la critica di Dalí non era tanto al presunto materialismo estremo dell’altro genio del Novecento, il ribelle andaluso. Piuttosto, lì c’è in filigrana l’ipocrisia dell’intellighenzia che vediamo agire oggi: quella che più si professa pauperista (anche contro i poveri veri) e più è presa sul serio. Più ci si dichiara e meno lo si è: qualsiasi cosa stiamo dichiarando, se non ne accettiamo l’intrinseca responsabilità.
Il Picasso doviziosamente omaggiato al Museo delle Culture di Milano (la mostra, iniziata il 22 febbraio, salvo repliche by the popular demand, dovrebbe concludersi il 30 giugno) non corre di sicuro questi rischi e la titolazione di tutta l’esposizione è invece un tributo all’attitudine alla ricerca che dovrebbe profondamente animare ogni artista, ogni intellettuale, persino ogni militante (e perché, allora, non ogni donna e uomo di “buona volontà”?): La metamorfosi della figura. Quando si smette di studiare, di cercare di migliorarsi, di agire nella conoscenza, ci si eclissa a sé, oltre che al prossimo.
Bisogna poi riconoscere che dalla fine degli anni Dieci ad almeno l’inizio dei Quaranta (dalla conclusione della Grande Guerra fino ai prodromi del secondo conflitto mondiale) Picasso lavora sulla figura con certosina insistenza, quasi con ossessività. Le forme che delineano le sagome sono decisive; se ne è accorta tutta la grande arte del periodo. È l’effetto di un nuovo modo di intendere sia il moto che la stasi.
Da questo punto di vista, nonostante ampie e vere differenze ideologiche e stilistiche, il futurismo e il cubismo nascono intorno a una comune convinzione. La figura su tela non ha più uno spazio, è diventata un ruolo, una liturgia. Dal quattordicesimo secolo fino al diciannovesimo, se si eccettuano dirompenti ventate di novità (come quella rappresentata dal nostro Caravaggio, come la foga particolaristica di certa pittura fiamminga), la posizione della figura sul quadro diventa quasi più importante dell’azione del personaggio che rappresenta. La pittura non ha da spingersi oltre. Picasso comprende che è tempo di spostare il confine: se del caso, abbattendolo, proprio perché quella tradizione si studia e conosce.
Alcune sperimentazioni sono celebri e non cadono affatto in un asettico primitivismo convenzionalista. La celebre Testa di donna del 1926 è vero rimando a una visione molto tribale e carnale della figura: scomposta, ridotta alle linee e alle curve che si notano a primo impatto; eppure è straordinariamente intelligibile il morbido abbozzo di un caloroso sorriso. Riflettiamo sul periodo: gli anni Venti non hanno ancora preso la via della crisi e dell’autoritarismo, sebbene molte avvisaglie vi siano intorno e il decennio a venire plasticamente tutte finisca per scoprirle. Sono gli anni in cui il franco-algerino Albert Camus (1913-1960) si innamora ragazzino dei lungomare dal Maghreb alla Provenza: e delle pallonate, e dei tuffi, e della benevolenza degli anziani e degli infanti. Sono gli anni in cui la solarità mediterranea si immola agli orrori dell’ingiustizia: presa da innocenza, colpita nella sua vulnerabile mitezza, nella sua palpitante mancanza di coazione. E quella solarità un po’ infantile, un po’ zoomorfa, stemperata dalle tinte chiare e dalle ore di luce delle giornate estive, ritorna prepotentemente in un’altra opera manifesto del Picasso del tempo: La donna che gioca in spiaggia del 1928 è un po’ Sfinge e un po’ chimera, un po’ bambina e un po’ adulta sghemba; mai Idra, mai Caronte.
Forse il Dalí degli anni Cinquanta è un po’ eccessivo quando apostrofa l’altro dioscuro come se fosse ormai il pittore ufficiale del socialismo (per non dir di peggio: il pittore del socialismo ufficiale). È vero: i personaggi picassiani non sono più sottoproletari e rurali come quando il fuoco dell’esclusione sociale gli mordeva le viscere peggio di un cancro. Eppure, stavolta, l’Altro è ancora più in primo piano: non è ritratto per come lo vede la cultura dell’Autore; è questo semmai che gli chiede invece dei codici per rivelarsi ancora più direttamente. Per riconoscersi comuni nella gioia, anche quando altrove governa l’inquietudine o l’angoscia.
Ripresa nella sua capacità di catturare frammenti semiologici che vanno dall’antropologia del neolitico fino all’arte magno-greca, passando per le suggestioni australi e africane, questa esposizione di Picasso dimostra insomma che l’empatia è una formidabile tecnica di traduzione. La metamorfosi della figura è una metamorfosi del linguaggio prima ancora che del punto di vista.
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