La battaglia per la Linea Cesar iniziò alle 10.30 del 26 maggio e fu subito sanguinosissima. Il primo assalto americano fallì clamorosamente. L’offensiva si era impantanata e anche i canadesi avevano perso energia. Solo il corpo di spedizione francese continuava la sua travolgente avanzata, con il rischio però di rimanere isolato. Era necessario un nuovo assalto, un successo che sbloccasse la situazione. Questo compito sarebbe toccato alla 36esima texana del generale Walker, una divisione che si era fatta la fama di essere sfortunata e di portare sfortuna a quanti la circondavano. Walker, però, aveva studiato bene il terreno e aveva intravisto una possibilità di successo nel settore del Monte Artemisio. Questa altura, facente parte dei Colli Albani, era scarsamente difesa ed era l’orlo meridionale di un antico cratere vulcanico. Sulle pendici dell’Artemisio vi era una pista per boscaioli che poteva essere allargata e adattata per il passaggio dei carri armati. Walker spiegò il piano a Truscott che soppesò bene le probabilità e diede l’assenso: “Veda di riuscirci. Sarà meglio per lei”, rispose a Walker.
Il 141esimo reggimento avrebbe attaccato Velletri impegnando la guarnigione tedesca mentre gli altri due reggimenti sarebbero passati per l’Artemisio. All’1.30 di mercoledì 31 maggio la 36esima divisione fece la sua mossa. Nel più perfetto silenzio, due reggimenti di fanteria si inoltrarono per la montagna e dietro di loro, durante il giorno, arrivarono i bulldozer a spianare la strada. Il 1° giugno i tedeschi che difendevano la Linea Cesar si trovarono presi alle spalle e iniziarono a ritirarsi incappando nelle imboscate dei fanti texani. La furia degli americani era alimentata dal desiderio di vendetta e di rivincita per le perdite crudeli subite sul Rapido. Fu una splendida vittoria, forse la manovra migliore di tutta la Campagna d’Italia, ma non bastò a evitare a Walker di essere sollevato dal comando come Clark aveva avuto intenzione di fare fin da gennaio. Valmontone venne raggiunta dalla III divisione e anche la 34esima riuscì ad avanzare entrando a Lanuvio. Nei combattimenti per quella cittadina si distinsero due nippoamericani del 100esimo battaglione: Yieiki Kobashigawa e Shinyei Nakamine, ambedue decorati con la Medaglia d’Onore. La strada per Roma era ormai aperta e Kesselring decise di ritirarsi a nord dopo aver esautorato von Mackensen, colpevole di aver trascurato i suoi avvertimenti circa la vulnerabilità dell’Artemisio.
Iniziava l’inseguimento degli Alleati, sapientemente ritardato dalle azioni delle retroguardie tedesche. Il VII reggimento del colonnello Jack Toffey, della III divisione, aveva raggiunto Palestrina per poi puntare a Zagarolo ed evitare Roma. Il pomeriggio del 3 giugno il proiettile di un carro armato centrò la casa dove si trovava il suo comando. Una scheggia squarciò la nuca del colonnello uccidendolo sul colpo. Toffey era uno degli ufficiali più stimati e amati di tutta la V armata e la sua morte colpì tutti anche il generale Clark, che pure aveva visto morire tanti suoi subordinati. Quel giorno stesso Clark fece redigere una lista degli ufficiali superiori con un curriculum lungo e immacolato. Sarebbero stati i generali delle guerre americane per il futuro: “Li rimando in patria – disse – perché sono troppo preziosi per metterli a rischio in altri combattimenti”.
Almeno un accenno va fatto a due reparti italiani che, in quei momenti, coprirono la ritirata tedesca con abnegazione totale. Il battaglione “Barbarigo” si fece quasi annientare prima a Cisterna, dove rifulse l’eroismo del tenente Tognoloni, poi medaglia d’oro al valor militare e poi alle porte di Roma, nel pomeriggio del 2 giugno. Il giorno dopo toccò al reggimento volontari paracadutisti “Folgore” combattere fino all’ultimo uomo. La VII compagnia del tenente Ferretto si sacrificò anch’essa in un contrattacco di retroguardia con gli inglesi. Al grido “Fuori, fuori, ragazzi! Folgore!” i giovanissimi parà riconquistarono alcune alture strategiche nei pressi della via Ardeatina, vicino al fosso della Mola. Un volontario di 17 anni, Ferdinando Camuncoli, venne decorato con la Movm alla memoria e tutta la compagnia venne annientata in quella stessa giornata. In un’azione disperata, il maggiore Rizzatti, l’artefice dell’ammutinamento della “Nembo” in Sardegna, attaccò un’autoblindo con mitra e bombe e mano e restò ucciso insieme al suo attendente nei pressi di Castel di Decima. Più della metà del reggimento venne distrutto.
Il 4 giugno le avanguardie americane entravano a Roma fra due ali di folla in delirio mentre in alcuni quartieri ancora si combattevano sporadici scontri. Per “Marcus Aurelius Clark”, come qualcuno lo aveva soprannominato, il trionfo fu degno di un generale romano. Non solo per lui, comunque, dato che la popolarità degli americani presso gli italiani, la loro allegria, la voglia di far festa, la generosità spesso imprudente faceva sì che questi invasori fossero considerati come liberatori. Sta di fatto che per Clark, nonostante avesse disobbedito a un ordine di un superiore, non ci fu mai nemmeno l’ipotesi di un’azione disciplinare: segno che quel desiderio di gloria non era soltanto suo, ma era condiviso ai vertici più alti delle forze armate americane. Tutta la nazione fu inebriata dalla grande vittoria e si festeggiò anche a casa del colonnello Toffey a Columbus. La notizia della morte del marito e padre giunse solo il 25 giugno. Molti telegrammi di lutto arrivarono a migliaia di famiglie negli Stati Uniti e in tutti i Paesi del mondo perché tutto il mondo sembrava essersi radunato per combattere una nuova Armageddon a Cassino.
Le perdite erano state altissime e gli americani avevano pagato più di tutti con 3mila morti e 15mila feriti. Gli inglesi avevano perso, fra morti, feriti e dispersi, 12mila uomini, i francesi 9.600 e i polacchi 4mila. Quanto ai tedeschi, avevano avuto 58mila morti e più di 50mila feriti oltre a 20mila prigionieri.
Di quella lunga, terrificante epopea restano musei, monumenti, ma, soprattutto, cimiteri a Nettuno e a Cassino. Particolarmente impressionante è quello polacco sulle pendici di Monte Cassino. Davanti ai suoi soldati sta la tomba del generale Anders, ancora alla guida dei suoi uomini e una scritta: “Noi soldati polacchi / per la nostra e vostra libertà / abbiamo dato le nostre anime a Dio / i nostri corpi al suolo italiano / e i nostri cuori alla Polonia”. Molti anni dopo un altro grande polacco riecheggiava queste parole nell’orazione compiuta nel 1980 sulle tombe dei suoi compatrioti. “A Monte Cassino – disse Giovanni Paolo II nel 1980 – combatté il soldato polacco, qui morì, qui versò il suo sangue, con il pensiero fisso alla Patria, che per noi è una Madre così amata, proprio perché l’amore a essa esige così tanti sacrifici e rinunce. […] Ed ecco, durante questo tempo, dal 1° settembre fino a Monte Cassino, questo soldato ha percorso tante strade, con lo sguardo fisso nella Provvidenza di Dio e nella giustizia della storia, con l’immagine della Madre di Jasna Gora negli occhi… è venuto e di nuovo ha combattuto per la libertà nostra e vostra”.
“Per la nostra libertà e la vostra” fu lo slogan esposto da quei pochi manifestanti russi che, nell’agosto 1968 protestavano contro l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Armata Rossa. “Per la nostra libertà e la vostra”: un pensiero, un monito che oggi l’Italia ha dimenticato, cercando di voltare le spalle al dramma che accade in Ucraina. E se l’ha dimenticato è proprio perché ha buttato nel dimenticatoio anche quei soldati venuti da tutto il mondo per ridarle una libertà costata così cara.
(3 – fine)