A volte trovi la perla e allora capisci che vale la pena. Interrogazioni di fine anno. Si parla di Petrarca. A ragazzi sfiniti di terza liceo, subissati di verifiche, interrogazioni, compiti in classe tutti insieme, argomenti spiegati all’ultimo momento da studiare in fretta e in furia e di cui probabilmente rimarrà a dir molto un 10 per cento, propongo solo di portarmi alcuni testi di Petrarca più altri due a loro scelta, tra quelli letti in classe. Mi interessa meno la lezione imparata a memoria sulle pagine del libro relativa a vita, opere, stile eccetera eccetera e molto di più che abbiano letto con attenzione i testi, che li abbiano capiti o, magari, che in qualche modo li abbiano vissuti. E la perla accade.
Faccio al gruppo una domanda: “Ripensate all’anno scolastico. Com’è stato il vostro incontro con la letteratura, con quello che abbiamo letto e studiato?”. Una studentessa [che chiamerò Marta] interviene e mi racconta quello che le è successo: “Ne parlavo ieri con mio fratello che fa la quinta in un’altra scuola [lo chiamerò Lazzaro]. Sentendo la sua esperienza ero partita prevenuta, con un pregiudizio. Credevo che studiare autori importanti come Dante e Petrarca sarebbe stato non solo faticoso, ma anche pesante [aggettivo che, tradotto, significa “noioso”, “arido”, in fondo “inutile”]. Invece ho scoperto con piacere che venivo coinvolta io in prima persona, che era bello leggere quelle poesie perché parlavano di me. Non me l’aspettavo proprio!”.
Eccola qui la perla, o la perlina se credete. Ecco il risultato di una didattica orientativa, se vi va di definirla così; ecco il caso in cui l’ora di lezione, lo studio, la lettura, il programma da svolgere non diventano pagine su cui chinare la testa, nozioni da introdurre in quella testa e da saper ripetere, ma una cosa semplice semplice: vita! Alla fine dell’anno scolastico uno si guarda indietro e riesce a dire “sì, ne è valsa la pena!” e magari gli resta dentro anche qualcosa, non tutto va buttato, o disprezzato, o addirittura odiato. Marta ne ha parlato con Lazzaro e il fratello l’ha invidiata: per lui la letteratura è una cosa “pesante”, specie quella del terzo anno. La Divina Commedia? Un testo strano, complicato, lontano; al limite un rebus decifrabile solo una volta che ci si sia impossessati di nozioni e istruzioni per l’uso. Una noia immortale, che non augureresti al tuo peggior nemico. Però è così che la letteratura viene vissuta troppe volte in troppe aule scolastiche.
Marta è una che studia, questo sì, è una che ci tiene, un tipo speciale, d’accordo. Ma anche per una così se non c’è gusto, se non c’è una qualche ricaduta per cui valga la pena, studiare è solo un peso. La sua testimonianza è importante, perché ci fa capire che occasione sprecata può essere per una ragazza di oggi uno studio di vecchio stampo, quello che si fa sulla letteratura magari anche di un mostro sacro della critica letteraria, che però non coinvolge davvero. Forse oggi i ragazzi alla scuola chiedono di più. Nel momento in cui internet ti toglie ogni curiosità e in un attimo trovi risposte che noi del secolo scorso faticavamo a reperire, nel momento in cui la tecnologia a portata di mano fa tutto, tu dove sei? Dove vai a finire? Cosa può darti di più la scuola rispetto ad un’intelligenza artificiale che in meno di un istante ti ha già risolto il problema, ti ha detto quello che devi dire, ti ha dato ciò che ti serve?
Marta, con la sua testimonianza, ci dice che la scuola può molto e in particolare possono molto quelle discipline umanistiche che oggi, invece, vanno poco di moda. Dentro quelle pagine ci sei tu, con la tua vita, i pensieri che ti sfiorano, i desideri, le gioie e le sofferenze che provi, le esperienze che hai fatto e che fai. O anche c’è qualcosa che ti spiazza e magari ti fa anche soffrire, ma ti risveglia. Marta ci dice che in un’era che rischia una totale spersonalizzazione, una sempre maggiore tipizzazione dell’umano, un conformismo comodo ed invasivo, c’è un luogo che rimette in movimento l’umano che è in noi. E questo luogo è un’aula scolastica, il libro che leggi e il lavoro che fai su di esso. La lezione, così, diviene un evento significativo, interessante, appassionante. È questo che chiedono i giovani di oggi, forse.
Lazzaro, col suo cinico giudizio, ci dice invece che l’impostazione tradizionale (spiegazione e presentazione di contenuti da ripetere e studiare) non funziona, non funziona più. Marta è risuscitata al terzo anno. Lazzaro, al quinto, non riesce ancora a farlo. Il suo giudizio sulla letteratura è figlio di un fallimento didattico ed educativo, un’occasione sprecata, come ho detto prima. E non si tratta di tecniche, non si tratta di sostituire la lezione frontale con una spruzzata di cooperative learning, di classe rovesciata, con qualche banco a penisola in più o con un po’ di didattica digitalizzata. Il problema è altrove, è a monte. Il problema è quello di lezioni in cui manca l’umano, l’interesse per l’umano. Manca Terenzio, quel suo “homo sum, nihil humani a me alienum puto”, detto e vissuto con convinzione. Ma è proprio in quella frase ciò che ci serve, soprattutto oggi, che ci coinvolge, che ci può interessare davvero.
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