La scelta di Emmanuel Macron di sciogliere l’Assemblea nazionale e indire delle nuove elezioni legislative a seguito dei modesti risultati conseguiti dal proprio partito nelle elezioni europee del 9 giugno ha suscitato diversi dissensi. È infatti sconcertante sciogliere l’Assemblea nazionale sulla base di un risultato elettorale del proprio partito alle elezioni europee, dove gli obiettivi non hanno ricadute immediate sui governi nazionali ed il tasso di astensione è molto elevato. Il ricorrere a questo strumento, quando non lo si è fatto al momento della legge sulle pensioni e della spaccatura del Paese che vi aveva fatto seguito, lascia basiti. Questa scelta comunque consegue, fin dall’inizio, due esiti immediati.
Il primo è quello del recupero di prestigio di una Presidenza della Repubblica che, dopo il collasso provocato dai gilets jaunes fermato solo dalla pandemia, è uscita profondamente logorata da mesi di trattative intorno ai dossier esplosivi dell’immigrazione, delle pensioni e della guerra in Ucraina.
Il secondo è quello personale del Presidente, che torna ad alimentare la propria centralità, dopo che, in queste stesse elezioni, il suo partito, oltre a perdere spettacolarmente il confronto con quello di Marine Le Pen, ha visto anche crescere la posizione di Raphaël Glucksmann la cui formazione (Parti Socialiste – Place Publique) si è classificata poco al di sotto di Renaissance.
Tuttavia, al di là di queste valutazioni di breve termine, si è qui dinanzi ad una strategia già consolidata, la cui spiegazione è profondamente rivelatrice della dinamica che caratterizza la realtà politica francese degli ultimi vent’anni.
Di fatto, nella storia della Quinta Repubblica, è la sesta volta che si pone mano allo strumento dello scioglimento dell’Assemblea. Lo ha fatto De Gaulle nel 1962 e nel 1968, rinforzando nettamente il proprio partito. Lo ha fatto Mitterrand nel 1981 e nel 1988, ottenendo nel secondo caso un successo limitato per la sua maggioranza. Il quinto ricorso allo scioglimento dell’Assemblea è stato realizzato da Jacques Chirac nel 1997 e si è risolto nella sconfitta di quest’ultimo e la vittoria della sinistra, riunita nella sigla unitaria della Gauche plurielle. Si è dato così inizio alla coabitazione tra una Presidenza della Repubblica di centro-destra ed un’assemblea guidata da una maggioranza di centro-sinistra nella quale si riconoscevano, oltre al partito socialista di Lionel Jospin, il Partito Comunista, i radicali di sinistra, i verdi e il Movimento dei cittadini di Jean-Pierre Chevènement.
È a partire dalle elezioni presidenziali del 2002 che si registra comunque la svolta significativa: il superamento al primo turno del Front National di Jean-Marie Le Pen sul Parti Socialiste di Lionel Jospin e l’esclusione di quest’ultimo dal secondo turno. Ciò motiverà la decisione delle forze di sinistra di coalizzarsi votando per il candidato del Rassemblement pour la République Jacques Chirac. Una tale strategia dell’unità nell’emergenza ha qui il suo primo banco di prova.
Di fatto nell’asse politico che governa da vent’anni la Francia, la scomunica morale del partito lepenista, rappresentato come l’asse di ogni male possibile, svolge un ruolo non secondario. Il crollo verticale del Partito Socialista e la diversità delle nuove formazioni che emergono nell’Assemblea nazionale hanno reso sempre più insidiosa agli occhi del progressismo di ogni colore la “lunga marcia” di questa formazione.
Se per farvi fronte la politica delle alleanze si rivela decisiva, questa richiede la produzione costante di una drammatizzazione del pericolo che il partito di Marine Le Pen e di Jordan Bardella è ritenuto rappresentare. Soprattutto quando l’onda lepenista passa il primo turno delle elezioni e si rivela pericolosamente vicina a prevalere nel confronto del secondo turno: quello decisivo.
Il coup de théâtre dello scioglimento dell’Assemblea nazionale e l’indizione di elezioni anticipate da parte di Macron si iscrivono in quest’esigenza di drammatizzazione, di fatto indispensabile affinché il processo di unificazione dell’union sacrée contro la destra possa apparire credibile. Solo a condizione di un tale innalzamento dei toni, agitando l’avanzare indiscutibile del mostro e rispondendovi con una “chiamata alle urne”, l’arcipelago centrista e socialista può avere una ragionevole possibilità di unificarsi e prevalere.
Si assiste così, nonostante il forte dimensionamento del partito di Jean-Luc Mélenchon, al grande ritorno delle manifestazioni anti-lepeniste, con slogan stagionati e bandiere palestinesi.
Ma si assiste anche ad una serie di terremoti interni, come quello che ha scosso la formazione di centro-destra dei Républicains, il cui presidente Éric Ciotti, dopo avere annunciato la sua decisione di allearsi con il Rassemblement National, è stato sfiduciato dall’ufficio politico del proprio partito. Ma anche come quello che ha terremotato la formazione della destra radicale, Reconquête, dove Éric Zemmour ha espulso Marion Maréchal, per la scelta di quest’ultima di allearsi con la formazione di Marine Le Pen.
Ma è giusto ricorrere alla strategia della drammatizzazione senza chiedersi perché la destra consegua un indiscutibile successo? La scelta di Macron, pur iscrivendosi in una strategia consolidata, deve in realtà fare i conti con una trasformazione profonda del tessuto sociale e politico, che si riflette nella nuova geografia della Francia contemporanea, egregiamente descritta da Christophe Guilluy e ripresa da molti altri.
Le grandi città riuniscono sempre di più una élite benestante, multiculturale, progressista, aperta al mondo, separata da ogni eredità e quindi virtualmente anywhere. Questa élite è circondata dagli arrondissements periferici e della proche-banlieue (la rete dei comuni contigui alla città) popolati gli uni e gli altri dagli immigrati di seconda generazione. Quest’ultimi, potentemente federati da un forte capitale sociale al quale la religione islamica fornisce il supporto morale, costituiscono la rete di manodopera e di servizi di assistenza per la borghesia benestante del centro.
A questo nucleo si contrappone la couronne della France pavillonnaire (la Francia delle piccole villette mono e bifamiliari) dove si è insediata la classe operaia e vivono i pensionati della Francia industriale degli anni Ottanta e Novanta. Cioè coloro che, in quanto si sentono provenire da qualche parte, hanno una storia da ricordare e un’appartenenza da rivendicare (i somewhere). Sono quest’ultimi che, spostandosi in automobile per raggiungere i luoghi di lavoro, hanno pesantemente risentito dell’aumento del gasolio deciso per fare fronte al global warming ed hanno finito per costituire la componente principale dei gilets jaunes: una rivolta che – vale la pena ricordarlo – solo la pandemia del Covid-19 ha fermato.
La destra emergente ha qui le principali reti di consenso. L’union sacrée contro la destra lepenista, non tenendo affatto conto di questi sviluppi della società francese, si trova così ad essere costantemente erosa da questa Francia popolare operaia, oramai rifluita fuori dalle periferie metropolitane e alla quale, nei mesi più recenti, si è unita la protesta degli agricoltori contro la politica dei prezzi sostenuta dal governo.
Oramai, da molti anni, sono le periferie a muoversi e non c’è nulla di più sbalorditivo di un’élite culturalmente attrezzata e adeguatamente informata che continui a non rendersene conto.
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