Il meccanismo è semplice. Si fa trapelare l’ipotesi della comparsa di un nuovo, ipotetico microbo. L’informazione è sprovvista di fondamento, tanto da dover individuare l’aggressore con una X. Ma tant’è: si ritiene che possa comparire. In un secondo momento si cerca di rintracciare qualche caso relativo alla trasmissione di un virus inusuale. Quindi, ricorrendo a modelli predittivi teorici si preconizza una diffusione epidemica, con conseguenze ovviamente disastrose. Fortunatamente, qualche azienda previdente ha già nel cassetto un vaccino o un prototipo che non aspetta altro che di essere testato.
A questa punto gli ingredienti ci sono tutti e non resta che mescolarli e farli cuocere a fuoco lento. Si moltiplicano segnalazioni isolate, si tratteggia lo scenario della diffusione a livello mondiale, si sottolinea la preoccupazione dell’OMS e si conclude evocando il pronto intervento dell’Europa. Che non si fa attendere e che provvede a comprare 40 milioni di dosi di un vaccino su cui non sappiamo nulla (seppure verrà utilizzato). Fortuna che l’Italia si è sottratta da una sceneggiata peraltro già vista negli anni scorsi. L’importante è che soldi freschi entrino nelle casse di Big Pharma.
Sgombriamo il campo dagli equivoci: il pericolo evocato riguarda l’influenza aviaria, sotto i riflettori da vent’anni. Non esiste nessuna prova di spillover e, benché la malattia possa causare malattie gravi, fino ad ora non è stata identificata alcuna diffusione interumana. Nonostante l’OMS abbia dichiarato che il virus costituisca un “enormous concern”, il Centre of Disease Control USA ha ribadito che “l’aviaria non è una grave minaccia per la salute pubblica”. L’allarme è stato però strumentalizzato per alimentare una nuova ondata di terrorismo virale e per proporre – udite, udite! – vaccini che contrastino la “crisi climatica”. Per contrastare le emissioni di metano e ridurre la produzione di CO2, cosa di meglio di un vaccino per gli animali che ne modifichi il microbiota (la popolazione di batteri che coabita nel nostro organismo)?
Il piano – guarda caso elaborato dalla Bill & Melinda Gates Foundation in associazione con il World Economic Forum (WEF) – non ha alcuna base scientifica, se solo si considera che il metano prodotto dagli allevamenti incide per meno del 2% sulle emissioni totali. In compenso questi ipotetici vaccini andranno ancora una volta a gravare sui costi degli agricoltori, sottraendo loro reddito per trasferirlo a Big Pharma. Inoltre, non c’è alcun bisogno di vaccinare le mucche contro i microbi per ridurre il metano, dato che pratiche di permacultura producono mangimi di alta qualità che producono meno metano. Vaccini di questo tipo possono poi compromettere la salute degli animali e la qualità organolettica delle carni, evenienze che non sono minimamente prese in considerazione.
Questa rinnovata enfasi sui vaccini concepiti come soluzione per qualsiasi problema – dalla salute al cambiamento climatico – si impernia sul One Health Concept, tanto attraente quanto vacuo. I sostenitori di questa nuova teoria affermano che, data la stretta interconnessione tra ecosistema, mondo animale e società umane, i cambiamenti climatici minacciano di coinvolgere a cascata ciascuno di questi ambiti. In particolare le malattie zoonotiche tenderanno ad aumentare in numero e gravità, rendendo inevitabile interventi pianificati sia sul clima sia sulla prevenzione ottenuta tramite vaccini, come auspicato in un articolo del 2023 (Vaccine innovation is a critical response to the climate crisis), firmato da T. Triomphe, il CEO di Sanofi.
E così a maggio, Fondazione Rockefeller e OMS hanno annunciato un’iniziativa “per costruire reti globali per il rilevamento degli agenti patogeni e rafforzare le capacità di preparazione alle pandemie, compreso l’ampliamento della sorveglianza delle malattie aggravate dall’aumento delle temperature e dalle condizioni meteorologiche estreme”. Mastercard, Microsoft e Wellcome Trust si sono prontamente accodate promuovendo la nascita del Capacity Accelerator Network, per supportare la teoria del One Health Concept.
L’OMS lo definisce “un approccio integrato e unificante che mira a bilanciare e ottimizzare in modo sostenibile la salute delle persone, degli animali e degli ecosistemi perché strettamente collegati e interdipendenti”. Il concetto di One Health sottolinea l’ovvia interdipendenza tra salute e ambiente, cosa nota da Ippocrate. La strumentalizzazione sta nel fatto che la rivisitazione moderna, nella ricerca ossessiva del rischio zero, consente di individuare in qualunque cosa possa interferire con la salute un target potenziale verso il quale confezionare un farmaco nuovo, possibilmente a base di mRNA. Questo approccio non nasce dal nulla, e se ne possono ritrovare le tracce nelle riunioni del WEF vent’anni fa, quando venne fondata una cooperazione “quadripartita” – comprendente la FAO, l’Organizzazione mondiale per la salute animale (WOAH) e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) – finalizzata a costituire una struttura (OHHLEP) con lo scopo di sviluppare e diffondere una teoria del cambiamento climatico associata a quella di One Health.
Sorprende che diversi membri dell’OHHLEP abbiano stretti collegamenti con la EcoHealth Alliance, quella stessa che, come rivelato dalle cronache recenti, ha avuto un ruolo fondamentale nel facilitare e finanziare le ricerche svolte dal laboratorio di Wuhan nella modifica del Sars-CoV2? È un caso che ritroviamo in questo gruppo il Dr. Peter Daszak che, insieme al suo amico Anthony Fauci, ha negato fino all’inverosimile la possibilità che il virus del Covid potesse provenire dai laboratori cinesi? È lo stesso Daszak che già nel 2019 affermava come “oltre il 30% di tutte le malattie infettive emergenti sono causate da fattori associati al cambiamento dell’uso del suolo e allo sviluppo agricolo” per cui si giustifica una drastica riconversione agricola. La logica conseguenza è che per ridurre il rischio di malattie e il riscaldamento climatico sia necessario ridurre gli allevamenti, magari decidendo di sviluppare centri per la produzione di carne sintetica. Ed ecco che si chiude il cerchio: sulla base di una teoria cervellotica si stabilisce un’equazione tra allevamento-malattie microbiche-clima e salute che impone di ridisegnare il modello produttivo e contemporaneamente estendere il livello di controllo, rendendolo sistematico ed onnicomprensivo tramite l’adozione di specifici strumenti, come il passaporto vaccinale.
Potrebbe essere chiamata “tessera sanitaria intelligente” o “ID sanitario digitale”, o anche una patente di guida digitale obbligatoria può fungere da piattaforma per un sistema di credito sociale in stile cinese. L’OMS ci ha provato e gli è andata male. Ma ritenterà. Viene in mente la filastrocca de Il Signore degli anelli: “Un Anello per domarli, un Anello per trovarli, Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli”. Ecco, queste le tristi avvisaglie delle emergenze prossime future.
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