Il tema dell’aborto è entrato con un certo clamore nell’ultimo G7, anche se di per sé questo incontro di carattere internazionale tra i “grandi” (o presunti tali) della terra era orientato a discutere piuttosto di guerra e di conflitti a livello mondiale.
Ci si è lamentati, soprattutto da parte francese, che nella bozza della dichiarazione finale non c’è più la parola aborto tra i diritti, ma come già a Hiroshima un anno fa si parla di “un accesso universale, adeguato e sostenibile ai servizi sanitari per le donne, compresi i diritti alla riproduzione”.
Al di là dell’uso della parola “riproduzione” al posto di “procreazione”, che renderebbe meglio l’aspetto umano, tipicamente umano, della generazione della vita, mi pare che il riferimento ai servizi sanitari sia più esatto, visto che curarsi dalle malattie è il primo diritto delle donne e quindi dovrebbe essere il primo impegno delle strutture ospedaliere.
Poi sappiamo bene che in quasi tutti i Paesi c’è stata una legalizzazione dell’aborto, che allo stato attuale, più che una questione medica, mi pare essere – come era del resto fin dal principio – una questione sociale. Infatti, non a caso la stessa legge 194 sull’aborto in Italia presentò l’interruzione volontaria della gravidanza come una scelta dolorosa, dovuta all’incapacità di risolvere problemi di natura sociale, compreso quello dell’educazione dei giovani.
Secondo me c’è stata ben poca attenzione ad applicare quella parte della 194 che si riferisce alla prevenzione per evitare il dramma dell’aborto. Ma c’è una cosa importante da aggiungere. Tutti, abortisti e anti-abortisti, siamo portati a occuparci poco del “dopo”, cioè di cosa accade a una donna che ha abortito. La questione mi si è imposta nei cinque anni in cui ho visitato a Koksu il lager femminile a regime duro, non lontano da Karaganda, nel cuore della steppa kazaka. In quel mondo dimenticato dagli uomini, ma non da Dio (per questo eravamo là io ed altri), ho incontrato donne che avevano ucciso il marito non potendo più sopportare le violenze che egli faceva loro e ai figli. Tra le donne del lager ce n’erano molte che avevano praticato anche più volte l’aborto. L’aborto nell’Unione Sovietica non solo non era considerato un crimine, ma anzi era considerato e presentato alle donne come una forma di controllo delle nascite. Questo doveva anche eliminare eventuali problemi di coscienza che comunque affioravano “dopo”. Per la verità, oltre ai problemi di coscienza per chi aveva praticato più aborti, c’erano spesso anche problemi di salute per la donna.
L’esperienza del rapporto con questo mondo, di cui in Italia avevo solo sentito parlare, ha incominciato ad aprirmi gli occhi su tante questioni, compresa quella della situazione della donna dopo un aborto. Credo in generale si affronti da tutte le parti la questione del “prima” e si trascuri spesso quella del “dopo”. Anche nel nostro mondo cattolico, una volta che la donna si è confessata e ha ricevuto l’assoluzione, nella maggior parte dei casi non si è pronti ad accompagnarla in una situazione molto pesante, non solo psicologica, in cui ella rimane. Pensate alla questione del rapporto con eventuali altri figli, con il compagno (o marito) e in generale con gli uomini soprattutto quando l’aborto è nato da un clima di violenza. Il tentativo di convincere le donne da parte di alcuni che “in fondo non è successo nulla” mi sembra assai poco rispettoso della persona delle donne.
Capisco bene che sto ponendo un problema piuttosto che suggerire soluzioni. Sono anche convinto che c’è già chi su questo sta lavorando, ma mi piacerebbe che se ne parlasse di più, più apertamente.
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