Hanno avuto qualche eco mediatica alcune dichiarazioni polemiche lanciate da Alessandro Azzi, confermato alla presidenza della Federazione lombarda delle Banche di credito cooperativo. Azzi (a lungo Presidente nazionale della Federcasse), ha criticato l’atteggiamento del gruppo Casse Centrale che si è ritrovato al vertice del “secondo polo” del credito cooperativo italiano dopo la riforma-diktat imposta dal Governo Renzi nel 2015. “Il gruppo Iccrea ha dimostrato di saper riconoscere il valore della complementarietà e della sinergia con la componente associativa tanto a livello nazionale che regionale, il gruppo Cassa centrale sembra invece prestare meno attenzione”, ha detto Azzi in quella che è sembrata in realtà una riflessione problematica più ampia.
In una fase “emergenziale” per il sistema-Paese (e per l’intera Ue) è inevitabile osservare il ruolo del credito cooperativo, gestore storico e importante di risparmio delle famiglie e di credito alle imprese minori. È lecito, in modo più specifico, chiedersi se la riforma Renzi abbia sostenuto il consolidamento evolutivo della tradizione del mutualismo bancario, transitata dalle casse rurali e artigiane alle banche di credito cooperativo. Se l’opzione strategica di dividere il settore-movimento in due, con la nascita di due capogruppo Spa non abbia in realtà snaturato e depotenziato un importante circuito di sussidiarietà finanziaria: che anche la regulation bancaria derivata dai Trattati di Maastricht aveva voluto salvaguardare, pur nell’omogeneizzazione delle banche come imprese profit-oriented.
La riforma del 2015 – che Azzi aveva avversato – ebbe alla sua origine la volontà del Governo Renzi di accogliere in modo zelante la spinta del Fondo monetario internazionale di azzerare in Italia istituzioni come le Popolari e le Bcc, irriducibili nel modello unico di “banca capitalista” proprio della globalizzazione turbofinanziaria. Altre considerazioni guardarono allora alla possibile trasformazione di un settore trasversale all’economia e alla società del Paese in due “super-Popolari”, tendenzialmente più funzionali al riassetto complessivo del sistema creditizio nazionale (nonché più aperte all’interlocuzione diretta con le forze politiche nazionali).
Sta di fatto che se il credito cooperativo italiano ha sì proceduto da allora a un consolidamento interno – principalmente attraverso fusioni fra Bcc, riordinate nei nuovi contenitori Iccrea e Cassa Centrale Banca -, ma non ha beneficiato dalla riforma di reali effetti propulsivi. E oggi il settore – se non proprio “dimenticato” – non è protagonista nell’Azienda-Paese: ed è quasi paradossale in una fase in cuiil “risparmio nazionale” – che in Italia è ancora molto – è tornato una risorsa strategica. E allorquando sia il Governo che la Banca d’Italia rilevano da tempo l’alto livello di giacenze liquide sui conti bancari.
Gli italiani continuano ad avere lo sportello bancario come riferimento (spesso ancora fisico) e le banche restano il veicolo principale di alimentazione del credito verso l’economia. Non solo per questo per il credito cooperativo è certamente l’ora di un bilancio. Non per nostalgie o recriminazioni, ma sicuramente per un robusto tagliando a una riforma molto discussa già quando fu varata: in termini socioeconomici, ormai un’eternità fa.
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