Gli affitti a canone libero pesano mediamente per il 35,2% sullo stipendio, una percentuale che nel lustro tra il 2018 e il 2023 è cresciuta di quasi 4 punti. In alcune città, come Firenze, il pagamento impegna fino al 46,5% della retribuzione. Un dato che ripropone il tema del potere d’acquisto dei salari e che fa il paio con una serie di altri adempimenti che svuotano le casse delle famiglie italiane, tanto che, come spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos, docente di teoria e analisi delle audience nell’Università La Sapienza di Roma, oltre la metà dei nuclei interessati ammette di far fatica a corrispondere l’affitto ogni mese. E la stessa cosa succede per la rata del mutuo. Il problema è che gli aumenti si scaricano sempre più sulla gente comune: negli ultimi vent’anni la percentuale di persone che ritengono di appartenere al ceto medio è scesa dal 70 al 40%.
Si lavora sempre di più per pagare l’affitto, le retribuzioni servono per il 35,2% a questo scopo. Quanto pesa il problema casa per gli italiani?
Il 52% delle persone che sono in affitto nell’ultimo anno hanno avuto difficoltà a pagarlo. Un dato alto, anche se in leggero miglioramento rispetto al 2022, quando le famiglie che avevano difficoltà erano il 58%, quindi il 6% in più. Per quanto riguarda i mutui, considerando sia chi ha avuto difficoltà saltuarie, sia chi le ha dovute affrontare più frequentemente, le persone che hanno avuto dei problemi sono state il 53% nel 2023, più o meno la stessa cifra dell’anno precedente. All’interno di queste percentuali gli inquilini che hanno sempre avuto difficoltà a pagare l’affitto sono il 13%, quota che si alza al 15% relativamente ai mutui. Per quanto riguarda le spese condominiali, infine, siamo a un 55% di difficoltà: tra queste persone per il 14% la difficoltà è cronica.
Il problema è più l’aumento degli affitti o il sempre inferiore potere d’acquisto degli stipendi?
Per alcuni gli stipendi sono rimasti stabili, ma c’è anche un 3-4% che è stato messo in cassa integrazione e un 6% che il lavoro lo ha perso proprio. Ovviamente queste persone hanno avuto problemi economici. Sono aumentati poi i prezzi di gas ed elettricità, gli importi delle bollette. Il 70% degli italiani ha dovuto erodere i propri risparmi in virtù di questi aumenti. Il 68%, invece, risparmia meno o ha dovuto intaccare i risparmi a causa dei consumi alimentari, un dato cresciuto del 4% rispetto al 2022.
L’aumento delle retribuzioni, quindi, è una delle priorità per le famiglie italiane?
È una delle richieste principali delle persone. Il 33% chiede un aumento generalizzato del proprio potere d’acquisto, in termini di stipendio e capacità economica in generale. Ma nell’agenda delle priorità economiche degli italiani per il 50%, ed è la prima richiesta, c’è l’aumento dello stipendio, seguito dalla necessità di ridurre il divario fra ricchi e poveri (35,2%). Al terzo posto (31,5%) c’è la richiesta di vietare i contratti precari per dare stabilità esistenziale ai giovani.
Quanto pesano gli affitti, le bollette e i consumi alimentari nelle diverse classi sociali? Cambiano anche la percezione di appartenere a un ceto piuttosto che a un altro?
L’elemento dirimente da questo punto di vista, quello che cambia la posizione sociale, è il lavoro, soprattutto per chi è stato messo in cassa integrazione, per chi ha perso il posto o ha dovuto cambiare le sue mansioni. Questo ha determinato evidentemente anche delle difficoltà ad affrontare le spese quotidiane. Il cambio di classe nel corso degli anni è avvenuto perché le persone si sono infragilite. Chi guadagnava 4 o 5 milioni nel 1990, oggi, con uno stipendio di 2.000 o 2.500 euro, non si sente più ceto medio ma ceto medio-basso. Negli ultimi vent’anni il mancato adeguamento dello stipendio ai salti inflattivi, a partire già dai primi anni di introduzione dell’euro, ha determinato un’erosione dello stipendio.
Uno dei problemi maggiormente sentiti è quello dell’inflazione: la gente chiede meccanismi di adeguamento delle retribuzioni alla crescita della spesa familiare dovuta all’aumento dei prezzi?
In questo momento il problema di fondo è che nel corso degli ultimi 30 anni gli stipendi sono diminuiti, invece che aumentati, in rapporto al costo della vita: esiste un bisogno di adeguamento strutturale, anche perché questa situazione ha generato, dal 2003 al 2023, una crisi verticale del ceto medio. Ventuno anni fa le persone che si sentivano ceto medio erano il 70%, oggi sono poco meno del 40%. Un dato sul quale hanno inciso tanti elementi, dalla crisi dei mutui sovrani a quella dei bond e altre ancora. Serve un meccanismo da definire in modo concertato tra le parti che consenta una progressione degli stipendi in base all’aumento del costo della vita, senza ritornare a meccanismi automatici, ma garantendo una capacità di adeguamento. L’impennata dei prodotti alimentari ha toccato anche il 12%.
(Paolo Rossetti)
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