Doveva capitare anche a loro. Come la storia insegna, arriva un momento in cui i padri fondatori si devono fare da parte e non pretendere di comandare sui loro stessi successori. Pena l’eliminazione. Senza scomodare il complesso di Edipo e i grandi parricidi della storia, il fenomeno è stato ampiamente documentato nella nostra seconda repubblica. È capitato a destra quando Salvini ha estromesso Bossi, con la Meloni che ha pensionato Fini, ma è successo anche a sinistra, con D’Alema prima e Veltroni poi, costretti a liberarsi del loro mentore Occhetto. Ora è giunto il momento di Grillo.
Beppe Grillo ha coltivato con cura il proprio profilo di fondatore/garante. Disponeva di due leve di comando molto forti: da un lato la Casaleggio&associati, braccio organizzativo e proprietaria della piattaforma su cui si svolgeva la vita “democratica” del movimento, dall’altra un gruppo dirigente di giovani ambiziosi e arrembanti, ma nella sostanza dei bravi ragazzi fedeli seguaci.
Come sappiamo questo modello ha funzionato egregiamente fino al grande exploit del 2018, quando i 5 Stelle divennero primo partito in Italia e nel parlamento. Poi la rottura con Casaleggio figlio, i conflitti tra i giovani leoni (in particolare quello tra Di Battista e Di Maio), la scelta occasionale di Giuseppe Conte come primo ministro. L’avvocato non godeva della stima di nessuno e proprio per questo sembrò perfetto per presiedere un governo anomalo come quello giallo-verde nato dall’intesa con l’altra gamba populista, la Lega. Una vera garanzia per non offuscare i due giovani astri nascenti proclamatisi vicepresidenti, Di Maio e Salvini.
Come oggi sappiamo, in pochi mesi, dal luglio 2018 ad agosto del 2019 (nascita del Conte 2), il Movimento subisce una trasformazione genetica profonda. Intanto l’esperienza di governo accentua le differenze tra gli esponenti più capaci (lo stesso Di Maio, ma anche uomini come Patuanelli e Spadafora) e altri decisamente inadeguati (basta citare Toninelli?). Poi la crisi di alcune amministrazioni locali che avrebbero dovuto fare la differenza: Parma con Pizzarotti, Torino con l’Appendino, soprattutto Roma con la Raggi. Infine la svolta voluta dal fondatore/garante, che in poche ore decise di ribaltare l’alleanza facendo un governo con i nemici di sempre, a cominciare da Renzi e il Partito Democratico.
Tutto questo avviene all’ombra di Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo, che rivela inaspettate capacità di galleggiatore. Il suo punto di forza è che appare a tutti molto debole, quasi inadeguato. Va bene a tutti nel senso che nessuno lo teme. Errore fatale. Dopo la gestione dei mesi della pandemia e dei ripetuti lockdown, il premier esce dall’ombra e incomincia a prendere una propria autonoma fisionomia. Cresce nei consensi e in popolarità. Grazie soprattutto al lavoro sotterraneo del suo uomo della comunicazione, Casalino, intelligente ed ambizioso, che ben presto prende nel Movimento il ruolo che era stato di Casaleggio. Il figlio Davide era già stato isolato e spinto alla rottura, consentendo a Conte, con un classico lavoro da avvocato, di riscrivere lo statuto e rifondare la piattaforma su cui gestire quel poco di vita democratica rimasta al Movimento.
Il grosso del lavoro è fatto, ha pensato il nuovo leader politico, manca solo relegare il fondatore in una posizione ininfluente. Ben pagata, ma ininfluente. L’occasione arriva con il Governo Draghi (non a caso l’unica cosa che Conte continua ad imputare a Grillo). La nascita del governo tecnico più popolare della storia della seconda repubblica vede pienamente coinvolto Beppe Grillo, che va di persona alle trattative. Il fondatore/garante non nasconde il suo entusiasmo per l’ex banchiere e per alcuni ministri da lui personalmente raccomandati.
Come sono finite le cose è noto a tutti. tutto sommato vista da punto del Movimento non si può neanche pensare che le cose siano finite troppo male. Conte arresta il crollo e ridisegna una fisionomia di partito di sinistra radicato nel mezzogiorno, legando la sua immagine a provvedimenti come il reddito di cittadinanza e il 110% duramente attaccati dal centrodestra, ma che comunque hanno consentito di accentuare il profilo progressista del Movimento. La guerra in Ucraina ha fatto il resto, offrendo a Conte lo spazio lasciato libero a sinistra da una linea pacifista, senza se e senza ma.
Si può dire quello che si vuole, ma oggi il Movimento 5 Stelle si è attestato su una percentuale a due cifre. Argomento molto convincente per chi all’interno aspira a nuovi incarichi e ai diversi posti disponibili nelle istituzioni di ogni ordine e grado. Con un tour-over garantito dal blocco dei due mandati. A parte i soliti scontenti – a cominciare dalla Raggi per finite con Di Battista – sono davvero pochi quelli che si sono schierati a sostegno delle critiche trancianti del fondatore. Un segnale evidente che oggi comanda Conte e che Grillo può al massimo ritagliarsi il ruolo del comico che, tornato in tournée, fa ironia sul bravo fondatore che fu, cioè su se stesso.
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