Continua la guerra dei semiconduttori fra USA e Cina. Washington cerca di tenere alla larga da Pechino possibili partner come Olanda e Giappone, chiedendo loro di mettere al bando una decina di aziende cinesi del settore: non vuole che il Dragone sviluppi ulteriormente la tecnologia digitale. Colossi a stelle e strisce come NVIDIA e AMD hanno interrotto da tempo le loro forniture e altre aziende europee hanno fatto lo stesso, ma il problema è che il settore è così complesso da rendere difficile qualsiasi tipo di controllo. E i cinesi, da parte loro, stanno cercando di sviluppare tecnologie alternative che garantiscano loro l’indipendenza dall’estero.
Al di là delle schermaglie relative a una battaglia che le due superpotenze stanno combattendo da tempo, all’orizzonte, spiega Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, si staglia uno scenario niente affatto positivo per l’Europa. Sotto la pressione americana e alle prese con eventuali dazi cinesi in risposta a quelli statunitensi ed europei, l’economia del Vecchio Continente potrebbe esplodere, con conseguenze inimmaginabili in termini sociali e politici.
Gli americani chiedono a olandesi e giapponesi di non avere rapporti commerciali con la Cina relativi ai semiconduttori. È l’ennesimo atto della “guerra” che gli USA stanno combattendo per ostacolare lo sviluppo tecnologico di Pechino. Quali sono le ragioni e quali conseguenze può avere questa campagna?
La presidenza americana parte dall’assunto che la tecnologia digitale, e in particolare i semiconduttori, sarà il fattore di competizione più rilevante dei prossimi decenni. Chi ha in mano questa tecnologia ha un vantaggio importante. Un assunto per certi versi banale, perché i semiconduttori ormai sono in ogni componente della nostra vita. La conseguenza è che si cerca di assumere il controllo dei semiconduttori. Le pressioni USA su olandesi e giapponesi sono la testimonianza plastica della complessità di questo obiettivo.
Cosa significa?
La catena del valore è globale, molto distribuita e parcellizzata: c’è la progettazione che è negli USA e in parte in Gran Bretagna, le macchine litografiche sono in Olanda, la produzione a Taiwan, l’estrazione di terre rare che è tutta nelle mani dei cinesi. E poi, ammesso che si riesca ad assemblare il puzzle, creare uno stabilimento competitivo sui semiconduttori richiede comunque almeno dieci anni.
I cinesi a cosa puntano? Vogliono essere autosufficienti in questo campo?
Ciascuno gioca la sua partita. La Cina sta mettendo molti soldi per cercare di aumentare le competenze a livello produttivo di un paio di aziende di Stato, le stesse che hanno realizzato i chips per Huawei a 7 nanometri. E sta investendo su tecnologie alternative per la produzione di semiconduttori basata su fotoni e non sulla tecnologia litografica, che è quella che c’è in Occidente ed è di matrice olandese. Inoltre, sta lavorando con Giappone e Sud Corea, i vicini di casa, per costruire alleanze. Questi Paesi, per quanto timorosi della Cina, sanno benissimo che non possono sopravvivere senza esportare lì. Pechino, insomma, gioca le carte su più tavoli.
Quindi stanno cercando una tecnologia tutta loro che li renda indipendenti dal resto del mondo?
Stanno facendo come con l’automobile: quando hanno capito che con l’endotermico non avrebbero mai colmato il gap sono andati sull’elettrico, concentrando risorse mostruose su questo, tanto che ora sono più avanti degli occidentali. Probabilmente stanno cercando di investire su tecnologie alternative, anche se nel frattempo hanno bisogno anche di rivolgersi alle aziende di altri Paesi.
La preoccupazione degli americani è essenzialmente militare? Oppure ci sono anche altri aspetti da tenere in considerazione?
Certamente c’è questo elemento, ma mi permetto di dire che gli americani non hanno la predisposizione culturale ad accettare altri soggetti che dialoghino alla pari con loro. Le cose vanno bene quando comandano loro e gli altri eseguono. A scanso di equivoci: sono filoamericano e filoccidentale, ma non mi pare che con questo atteggiamento stiamo ottenendo consensi come Occidente: i Paesi in via di sviluppo si stanno progressivamente spostando verso la Cina e la Russia. La democrazia è un attrattore modesto per molti di loro: per noi è il paradiso, ma dobbiamo capire che molte altre nazioni hanno bisogni basici, come mangiare e svilupparsi. Non ci si può arroccare dicendo che noi siamo il migliore dei mondi possibili.
In termini di scenario cosa ci dobbiamo aspettare? Gli americani continueranno a fare pressioni sui partner occidentali perché non collaborino con i cinesi?
Se gli USA vanno in mano a Trump, l’Europa esploderà. Mentre tiene banco il tema dei dazi europei sulle vetture elettriche cinesi, il ministro dell’Economia tedesco è andato subito a Pechino. E la Cina finora ha solo fatto finta di mettere qualche dazio, irrilevante, sulla carne di maiale. Se li mettesse sulle automobili, la Germania esploderebbe, se li mettesse sul lusso, la stessa sorte toccherebbe alla Francia. È bello parlare di valori ma poi le persone devono mangiare. Se vanno in crisi settori che danno da vivere a milioni di persone, la tenuta dei governi è a rischio, con forze estremiste che in ciascun Paese potrebbero prendere il consenso. È una dinamica quasi ingegneristica: se la pressione che si sta esercitando sull’Europa cresce ulteriormente, con l’arrivo di Trump e i dazi cinesi, chi ne farà le spese sarà il costrutto europeo.
(Paolo Rossetti)
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