STOCCARDA – La Commissione europea è passata all’azione. Bruxelles accusa la Cina di pagare sussidi eccessivi ai suoi produttori di automobili e di inondare il mercato europeo con auto elettriche a basso costo. Per proteggere il mercato europeo dallo tsunami di auto elettriche in arrivo, la Commissione ha annunciato tariffe preliminari elevate sulle auto elettriche provenienti dalla Cina, di importo variabile a seconda del produttore. È prevista un’aliquota tariffaria del 17,4% per Byd, del 20% per Geely e del 38,1% per il gruppo cinese partner Volkswagen di proprietà statale Saic.
Il ministero del Commercio cinese ha criticato aspramente l’iniziativa europea, ventilando la possibilità di adottare contromisure. In una dichiarazione, si afferma che la situazione sarà oggetto di attento monitoraggio da parte della Cina, che si riserverà di adottare tutte le misure necessarie per proteggere i diritti e gli interessi delle aziende cinesi. Secondo la leadership cinese, le tariffe danneggeranno le relazioni economiche tra Cina e Ue, le catene di approvvigionamento e, in ultima analisi, gli interessi dell’Europa stessa.
Le case automobilistiche tedesche, le cui vendite dipendono fortemente dal mercato cinese, si erano già espresse contro le tariffe, per paura di una ritorsione da parte cinese. Maximilian Butek, esponente della Camera di commercio tedesca in Cina, avverte sui rischi di una guerra commerciale. “Incoraggiamo tutti i soggetti coinvolti a mantenere la calma, evitando una escalation delle tariffe. Sarebbe un gioco senza vincitori né vinti.” Secondo Butek, il modo migliore per affrontare la concorrenza della Cina è migliorare la competitività dei prodotti (cosa naturalmente più facile a dirsi che a farsi).
I tedeschi cominciano peraltro a mostrare segni di disaffezione per la transizione energetica, con l’entusiasmo per la protezione del clima che ha lasciato il posto a un senso di frustrazione diffusa. L’ambizioso obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2045 sta diventando sempre più difficile da raggiungere, mentre Cina e Stati Uniti stanno invece recuperando rapidamente terreno. Gli investimenti orientati alla transizione energetica stanno sperimentando un boom soprattutto in America, anche se il prezzo da pagare si sta rivelando piuttosto salato.
Il disamoramento della Germania per il clima fa scopa col disastro elettorale dei Verdi, che in pochi anni sono passati dal 20% all’11%. Come sono riusciti in questa impresa? Anton Hofreiter (parlamentare Verde), arroccato in difesa e con la salivazione azzerata, subisce l’arrembaggio del giornalista Markus Lanz su ZDF. La tesi di Hofreiter è che i Verdi sono percepiti come ideologici e poco concreti nel realizzare le cose. La legge per la riqualificazione energetica degli edifici (che impone il raggiungimento della classe E entro il 2030 e della classe D entro il 2035) e l’uscita dal nucleare (peraltro decisa dal Governo Merkel) sono i nodi principali, con costi elevati che rischiano di compromettere il tenore di vita del ceto medio.
I verdi sono inoltre percepiti come poco risoluti sul tema immigrazione, che è sempre più in voga. Sono infatti contrari, ad esempio, ai rimpatri dei non aventi diritto in Afghanistan. Ogni rimpatrio in Afghanistan richiede una collaborazione con il “regime terroristico islamista”, un riconoscimento implicito dei talebani. Questo l’argomento dei Verdi, che però non sembra aver molta presa su un Paese affabulato dai partiti di destra. Verdi e talebani sembrano peraltro essere accumunati dalla stessa rigidità ideologica, sebbene declinata in forme diverse.
Nel frattempo, secondo la Bundesbank, l’economia tedesca dà qualche debole segno di vita. I consumi privati sarebbero in ripresa, e a partire dalla seconda metà dell’anno anche l’export dovrebbe registrare un miglioramento, dando una spinta anche all’industria. “L’economia tedesca sta uscendo dalla fase di debolezza economica”, ha dichiarato il Presidente della Bundesbank Joachim Nagel. Nell’anno in corso il Pil dovrebbe crescere dello 0,3%, per accelerare (si fa per dire) all’1,1% nel 2025 e (addirittura) all’1,4% nel 2026.
Se la Germania non ride, la Francia rischia di passarsela anche peggio. Dopo la debacle elettorale del partito di Emmanuel Macron, la grande nation rischia di finire governata dall’estrema destra nelle elezioni prossime venture. I mercati sono preoccupati dalle promesse elettorali di Marine le Pen, che rischiano di sfasciare i conti pubblici. Il debito pubblico francese viaggia ormai sui livelli italiani pre-pandemici (115% del Pil, e stiamo parlando di 4 anni fa). Anche la Francia sembra quindi vittima della sindrome “Britaly”, che trascina Paesi un tempo gloriosi in una spirale fatta di debito e instabilità politica, come l’Italia dagli anni ’80 in poi.
Più in generale, il debito è in fase di esplosione in tutto il mondo occidentale. Guardando la mappa di wikipedia “Stati per debito pubblico”, si vede che la macchia rossa più grossa è in corrispondenza dei Paesi del G7: Europa, Nordamerica e Giappone. I Paesi più ricchi del mondo sono quindi anche quelli più indebitati, una specie di ossimoro economico. Sembra che gli ex padroni del mondo riescano a mantenere il loro tenore di vita solo grazie alla carta di credito, privata e anche pubblica. Con una sola eccezione di rilievo: la Germania, appunto.
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