E allora, che cosa vogliamo fare con l’autonomia differenziata o rafforzata diventata legge prima del previsto anche se dopo il traguardo delle elezioni europee? Dobbiamo, come meridionali, metterci di traverso nel lungo cammino che attende il provvedimento prima che diventi effettivo o contribuire alla sua migliore applicazione ciascuno nel proprio ambito di competenze? Dobbiamo avere fiducia nelle rassicurazioni di equilibrio ed equità che provengono dal Governo o abbandonarci alla protesta delle opposizioni?
Questi quesiti attendono una risposta non di maniera ma di sostanza, perché è ormai chiaro che indietro non si torna. Il dado è tratto, verrebbe da dire, ed è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti. Per quante perplessità possa suscitare, la norma è in campo. Si può cercare di neutralizzarla per via amministrativa con i diversi tipi di ricorso a cui si può affidare il proprio dissenso (ed è una strada che certamente sarà percorsa) o cogliere la sfida che pone e mettersi all’altezza di vincerla giocando la partita.
Chi scrive sceglie la seconda opzione lasciando la prima, certamente legittima, ai giochi politici che ne costituiscono l’essenza. Sarà molto utile fare tesoro delle obiezioni e dei suggerimenti che vengono da istituzioni prestigiose come la Svimez a da tanti esperti e cultori della materia che si muovono nel suo solco ammonendo sui rischi che la riforma ci farà correre, ma a ben considerare era ora che qualche cambiamento intervenisse. Anche se l’esperienza insegna che non sempre il nuovo sia meglio del vecchio.
Dev’essere abilità di noi tutti e ancor più di chi ci rappresenta nelle sedi appropriate che il principio sacrosanto dei Lep – i Livelli essenziali delle prestazioni, cardine della riforma – sia rispettato. L’impianto si tiene e tiene unito il Paese solo se aiuta a superare il criterio distorsivo, oggi vigente, della spesa storica che “più dà a chi più ha” contribuendo ad aggravare il divario tra ricchi e poveri. Certo, si tratta di pareggiare le condizioni minime di trattamento e qualcuno potrà sempre fare e avere di più. Ma meglio questo che certi abissi di oggi.
Si dirà, ed è vero, che per poter realizzare questo passaggio epocale ci vogliono molte risorse, quantificate in prima battuta in 170 miliardi, che l’Italia non ha. Definiti i Lep, non si potranno applicare per mancanza di soldi. Dunque l’autonomia potrà nutrirsi soltanto dei suoi aspetti peggiori che sono la frammentazione e la disunità nella gestione di alcune materie chiave come l’energia, l’istruzione, i rapporti con l’estero e via elencando tra le ventitré materie oggetto di possibile passaggio alle regioni. Oltre al danno, la beffa.
Si tratta, certo, di un processo alle intenzioni. E l’italica indole è sicuramente condizionata dall’adagio andreottiano per cui a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca. Di fronte alle prime difficoltà le buone intenzioni (se ci sono) vanno a farsi benedire e le modifiche alla Costituzione – oggi promosse dalla destra, ma ieri volute e introdotte dalla sinistra – mostrano il volto peggiore. Quello paventato da chi oggi grida allo scandalo non avendo alcuna fiducia nella volontà o nella capacità degli altri di migliorare le cose.
Ancora una volta ci troviamo di fronte al dilemma se dar retta al pessimismo della ragione o all’ottimismo della volontà. Così com’è configurato, il Paese funziona maluccio. I risultati che conseguiamo sono una frazione di quelli potenziali. Ci teniamo a galla e navighiamo per l’intraprendenza e la caparbietà di un ceto imprenditoriale tra i migliori al mondo, in grado di primeggiare nonostante gli ostacoli che vengono frapposti al loro agire. È vero, non sarà una passeggiata di salute. Ma abbiamo gli anticorpi per non ammalarci.
Insomma, il percorso è pieno di insidie. Conoscendole dovremmo essere capaci di superarle.
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