Impossibile!: “È da stupidi pensare di poterlo fare”. Anche no: “Non era stupida, sapeva quello che voleva – scrive Cesare Pavese –. Solo che voleva delle cose impossibili”. Ricercare l’impossibile non per sfidare qualche cielo, ma solo perché tutto sembra impossibile fino all’istante in cui si agisce: è proprio allora, nel momento in cui la volontà firma un patto di collaborazione con il cuore, che ci si accorge che era possibile. È da tempi di Maria, quando non era ancora la Madonna che conosciamo, che il Vangelo è tempestato di sfide impossibili: “Hai voglia di dare anche tu una chance all’impossibile” fu la sfida che l’arcangelo le rivolse, partendo dall’impossibile che stava diventato possibile nel grembo della cugina.
Accolse la sfida: non era affatto stupida, lei. Sapeva quello che voleva, anche se, forse, l’idea si stava ancora perfezionando: sognava quelle “grandi cose”, appunto, che Iddio fece in lei. Così, per Maria, l’impossibile divenne una specie di divertimento. Dunque “Siate realisti: chiedete l’impossibile” è il monito che lo scrittore francese Albert Camus affida al suo Caligola: il rischio è che la tirannia dei fatti divenga l’unica misura del possibile, finendo per tramutarsi in una bella trappola per l’uomo. Più l’uomo ha consapevolezza di essere stato fatto per l’infinito, più comprende che questo è impossibile. Perciò diviene folle a tentare.
Nella richiesta dell’impossibile c’è il vero giacimento dell’uomo: un uomo non è uomo fino in fondo (“Quello non è neanche uomo”!) se non si apre alla realtà intera. E un uomo che non si apre all’interezza delle possibilità è un uomo mutilato.
L’uomo non è capace di questa totalità: ne è all’altezza, certo, ma non sa (so)stare all’altezza della sua vocazione. Il peccato è un qualcosa di cui non tutti abbiamo coscienza: bisogna avere avuto la grazia di provare a salire molto in alto per toccare l’alta tensione di questo limite. Ma se non cerchi di andar fino in fondo, fino in alto, non capirai nemmeno il limite. Stupisce che, per Camus, il vero delitto non sia stato Auschwitz, neanche Hiroshima, ma questa mutilazione anticipata della possibilità di far esperienza del nostro desiderio. E, dunque, del nostro limite. In questa fessura tra la chiamata all’infinito e la fallacia dei tentativi scorgo l’invito a “costruire con nuovi mattoni in luoghi abbandonati”: è il titolo della serata inaugurale del West Coast Meeting 2024. Adoro da impazzire quel versetto di Isaia: “Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi” (Is 58,12).
Non è un verso prêt-à-porter, è su misura: penso non esista una forma di abbandono peggiore della mancanza di attenzione. Si abbandonano i luoghi che, abbandonati, vanno spopolandosi. Si abbandonano le persone che, abbandonate, si abbandonano allo sconforto. È in questi luoghi, disabitati, com’è una galera, che l’impossibile rilancia l’invito: “Saranno sempre le cose impossibili a mostrarti chi scappa e chi, invece resta. Ci prova. A sfidare l’impossibile, anche a costi di apparire folle: ogni giorno – accorgermi presto è stata la mia fortuna – qualcuno sta facendo cose che altri dicevano impossibili.
In galera, il luogo più abbandonato della città, ci divertiamo a (ri)costruire. Quando ci riesce (di ricostruire una storia), i più penseranno che sian stati usati mattoni nuovi. Il che è di un’ingiustizia folle, perché i mattoni sono gli stessi che componevano le mura della casa caduta. E abbandonata.
Il fatto è che, da noi, s’impara l’arte di sabbiare i mattoni: il che permette di eliminare strati accumulati di vernice, depositi calcarei, muffa. Residui di un passato empio. Così facendo, però, i vecchi mattoni abbandonati riacquistano la loro bellezza iniziale. E, cosa ancor più avvincente, aumentano la longevità, perché rinforzati. È che all’uomo tutti dicono: “Sei il mio spettacolo” ma abbandonano il teatro prima che inizi. O nell’attimo in cui l’attore, per chissà che motivo, inciampa. È proprio quell’attimo di caduta, per chi ha fiuto dell’impossibile, che si accende la sfida: rimanere ad abitare l’uomo quando va a pezzi. Per sabbiare i vecchi mattoni, rinforzandoli.
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