Ci fu un tempo in cui la previdenza complementare aveva una missione da svolgere: compensare le giovani generazioni – con la forma più virtuosa del finanziamento a capitalizzazione e a contribuzione definita che risponde poi alla medesima logica del sistema contributivo pubblico, come la prestazione definita si rapporta al sistema retributivo – delle riforme previdenziali che con troppa cautela per gli insiders modificavano regole divenute insostenibili per le generazioni future; fondare il trattamento riservato al momento dell’uscita dal lavoro su due pilastri, uno obbligatorio e garantito dalla fiscalità generale, l’altro volontario da sperimentare attraverso la contrattazione collettiva, secondo regole dettate e vigilate dal legislatore, alla ricerca dei migliori rendimenti sui mercati dei capitali, in una prospettiva di democrazia economica diffusa e partecipata. Infine, il paradigma si concludeva con un Terzo pilastro mutuato dall’esperienza assicurativa.
La previdenza complementare collettiva è rimasta vittima di se stessa: pensata per i dipendenti standard non è riuscita a seguire i mutamenti intervenuti nel mercato del lavoro: in proposito c’è un dato di fatto significativo: il principale strumento di finanziamento è stato individuato nel Tfr allo scopo di non gravare sul costo del lavoro e di rendere disponibile una risorsa spettante al lavoratore. Chi nel suo rapporto di lavoro non dispone di questa risorsa (e spesso non riceve neppure il contributo del datore insieme al suo), deve mettere a disposizione quote del proprio reddito, operazione che un giovane stenta a compiere per evidenti motivi.
Per quanto ampio poi il vincolo contrattuale costituisce una platea chiusa, legata all’area di espansione delle parti negoziali ovvero alle aziende collegate e ai tassi di sindacalizzazione. I canali di raccolta soffrono di questi limiti di accessibilità; non è un caso, infatti, che il piani pensionistici individuali (Pip) siano in rapida e costante crescita anche da parte dello stesso lavoro dipendente che per sua natura dovrebbe avvalersi dei fondi negoziali. Poi si aggiunge l’inerzia dei Governi che non si occupano più del settore da quasi vent’anni se non per aspetti marginali o ultronei come la vigilanza sugli investimenti delle casse dei liberi professionisti.
La Covip ha presentato nei giorni scorsi il Rapporto 2024 riferito all’attività svolta nel 2023.
L’offerta
Alla fine del 2023, i fondi pensione in Italia sono 302: 33 fondi negoziali, 40 fondi aperti, 68 piani individuali pensionistici (Pip) e 161 fondi pensione preesistenti. Il consolidamento del sistema prosegue in particolare nel settore dei fondi preesistenti, nel quale nel corso del 2023 c’è stata una riduzione di ulteriori 30 forme e il cui numero si è più che dimezzato rispetto al 1999. Si trattava di fondi di modeste dimensioni e spesso a prestazione definita. Il ridimensionamento le loro numero è un aspetto positivo.
Gli iscritti e loro caratteristiche socio-demografiche
A fine 2023, il totale degli iscritti alla previdenza complementare è di 9,6 milioni, in crescita del 3,7% rispetto all’anno precedente; in percentuale delle forze di lavoro, gli iscritti sono pari al 36,9%.
I fondi negoziali contano 3,9 milioni di iscritti (+5,4% rispetto al 2022). La metà delle nuove adesioni è da ricondurre al meccanismo dell’adesione contrattuale; continuano a crescere anche le iscrizioni nel settore del pubblico impiego attraverso il meccanismo del silenzio-assenso per i lavoratori di nuova assunzione. Sono 1,9 milioni gli iscritti ai fondi aperti (+5,9%) e 3,9 milioni quelli ai Pip (+1,7%); 656.000 sono gli iscritti ai fondi preesistenti. Si noti che il numero dei sottoscrittori dei Pip è uguale a quello degli iscritti ai fondi negoziali.
Con riferimento alla composizione degli iscritti secondo le principali caratteristiche socio-demografiche, gli uomini sono il 61,7% degli iscritti alla previdenza complementare (il 72,7% nei fondi negoziali), confermando il gap di genere che è lo specchio della composizione del mercato del lavoro in forma ancor più squilibrata. Nelle forme di mercato le donne raggiungono il 42,6% nei fondi aperti e il 46,6% nei Pip. Questi dati sono significativi perché dimostrano che è più facile per le donne arrangiarsi da sole.
In base all’età gli iscritti sono prevalentemente concentrati nelle classi intermedie e più prossime al pensionamento (gap generazionale): il 47,8% degli iscritti ha un’età compresa tra 35 e 54 anni, il 32,9% ha almeno 55 anni. Alla faccia dei giovani, anche se, secondo il Rapporto, negli ultimi anni il peso della componente più giovane (fino a 34 anni) sul totale degli iscritti è comunque cresciuto, passando dal 17,6% del 2019 al 19,3% del 2023. Cresce infatti, tra le nuove adesioni, la quota di soggetti fiscalmente a carico, la cui iscrizione viene indirizzata prevalentemente a favore delle forme di mercato. Ciò rispecchia decisioni familiari di aprire una posizione previdenziale per i propri figli in vista di una successiva alimentazione con versamenti autonomi una volta che essi entreranno nel mondo del lavoro.
Rispetto alle forze di lavoro, la partecipazione alla previdenza complementare cresce all’aumentare dell’età: tra i 15 e i 34 anni si attesta al 27,4%, per salire al 32,8% nella fascia compresa tra 35 e 44 anni, al 36% nella classe 45-54 e infine al 45% tra 55 e 64 anni. Rispetto a cinque anni prima, il tasso di partecipazione della classe più giovane cresce di 6 punti percentuali e quello delle altre fasce di 3,5-4 punti percentuali.
Rispetto all’occupazione, il 37,6% dei lavoratori dipendenti aderisce a forme complementari contro il 23,5% dei lavoratori autonomi; la forbice si allarga considerando i soli iscritti per i quali risultano effettuati versamenti, molto meno presenti tra gli autonomi.
Quanto all’area geografica, il tasso di partecipazione supera la media nazionale nelle regioni settentrionali, soprattutto laddove l’offerta previdenziale è integrata da iniziative di tipo territoriale; valori più bassi e decisamente inferiori alla media si registrano, invece, in gran parte delle regioni meridionali.
Risorse, contributi e prestazioni
Alla fine del 2023, le risorse accumulate dalle forme pensionistiche complementari si attestano a 224,4 miliardi di euro, con un incremento del 9,1% rispetto all’anno precedente, determinato prevalentemente dalla dinamica positiva dei mercati finanziari. Le risorse accumulate sono pari al 10,8% del Pil e al 4% delle attività finanziarie delle famiglie italiane.
I fondi negoziali detengono il 30,2% del totale delle risorse, i fondi aperti il 14,5% e i Pip il 25,3%; il peso dei fondi preesistenti, pari al rimanente 30% del totale, per la prima volta quest’anno non risulta prevalente rispetto a quello dei fondi negoziali.
I contributi incassati nell’anno sono pari a 19,2 miliardi di euro (+5,2% rispetto al 2022), in crescita in tutte le forme pensionistiche complementari: nei fondi negoziali sono stati raccolti 6,5 miliardi di euro (+7,7%); nei fondi aperti 3,1 miliardi (+7,4%), nei Pip “nuovi” 5,1 miliardi di euro (+2,3%); nei fondi preesistenti sono confluiti 4,3 miliardi di euro (+3,8%).
Sulle posizioni dei lavoratori dipendenti sono confluiti 15,8 miliardi di euro di contributi, in crescita di 961 milioni rispetto all’anno precedente. Di questi, 7,8 miliardi di euro riguardano quote di Tfr; i contributi a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro sono pari, rispettivamente, a 5 e 2,9 miliardi di euro. Per i lavoratori autonomi sono confluiti versamenti per 1,7 miliardi di euro, 29 milioni in più rispetto al 2022.
Qui si presenta un altro handicap del settore. Gli iscritti versanti nel 2023, escludendo dal computo i Pip “vecchi”, sono 6,7 milioni, il 72,4% del totale. La contribuzione media di tali iscritti è di 2.810 euro, con lievi differenze in base alla condizione occupazionale: la contribuzione pro capite è più alta per i lavoratori dipendenti (2.900 euro), che possono beneficiare anche dei flussi di Tfr, rispetto ai lavoratori autonomi (2.720 euro).
Gli iscritti non versanti, pari a circa 2,6 milioni, sono più frequentemente presenti nelle forme di mercato e tra i lavoratori autonomi. Una parte cospicua è anche costituita da lavoratori dipendenti iscritti a fondi pensione negoziali con modalità contrattuale, con particolare riguardo a settori, come quello edile, il cui bacino è caratterizzato da elevata discontinuità occupazionale. Nel 2023 le uscite per la gestione previdenziale ammontano complessivamente a 11,6 miliardi di euro. Le prestazioni pensionistiche sono state erogate in capitale per 4,5 miliardi di euro e in rendita per 401 milioni di euro. I riscatti sono stati pari a 2 miliardi di euro e le anticipazioni a 2,5 miliardi di euro. Nell’anno sono stati pagati circa 1,9 miliardi di euro di rendite integrative temporanee anticipate (Rita), per lo più dai fondi pensione preesistenti.
Questi ultimi dati meritano un’evidenza specifica. La forma naturale della prestazione dovrebbe essere la rendita che si aggiunge al trattamento obbligatorio. Prevale invece la liquidazione in capitale. Anche il ricorso ai riscatti e alle anticipazioni mortifica la funzione previdenziale in favore della logica dell’investimento fiscalmente agevolato.
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