La Borsa in sciopero e l’Italia del Pnrr

Lo sciopero dei dipendenti della Borsa italiana porta a qualche riflessione sul ruolo di Piazza Affari nell'economia del nostro Paese

Lo sciopero dei dipendenti della Borsa italiana – indetto per domani – in sé non è una notizia breaking. Borsaitaliana Spa non è una grande azienda nazionale e non è neppure più italiana: è controllata oggi da Euronext, la principale piattaforma-mercato europea a guida francese, dotata di un network di sette Borse nazionali nell’Ue. Fino al 2021 Milano faceva capo alla City di Londra: Borsaitaliana era stata ceduta dalle grandi banche italiane al London Stock Exchange ancora nel 2007 (il rientro nell’eurozona è maturato dopo Brexit).

Nemmeno l’agitazione dei circa 300 “bancari” di Borsaitaliana – su circa 800 dipendenti di Euronext in Italia – è legata a un’emergenza sindacale effettiva, come ad esempio l’annuncio di un taglio occupazionale. L’astensione del lavoro per tre ore durante la seduta di domani mira invece a filtrare pubblicamente malumore e preoccupazione per la scarsa attenzione che la capogruppo parigina riserverebbe a Piazza Affari (accusa però respinta dalla Presidente Claudia Parzani, secondo la quale occupazione e investimenti sono invece aumentati sotto la gestione Euronext). Ciò è comunque valso una convocazione dei sindacati presso il ministero per il Made in Italy: che non si profila del tutto rituale, stimolando anzi una riflessione sostanziale sul ruolo recente della Borsa nell’Azienda-Paese.

Un’intera stagione politico-finanziaria – fra gli anni ’80 e ’90 – ha avuto lo sviluppo del mercato finanziario domestico nelle dimensioni della globalizzazione come scenario e come terreno operativo di gioco. Le grandi privatizzazioni piuttosto che le grandi fusioni bancarie od operazioni “madri” come l’Opa Telecom non avrebbero potuto concretizzarsi senza l’esistenza di una “Borsa italiana”, essa stessa privatizzata nel 1998. Senza Piazza Affari l’Italia non avrebbe potuto assaggiare in presa diretta la New Economy e – prima ancora – una migrazione dei risparmi delle famiglie dall’elementare alternativa fra depositi bancari/postali e titoli pubblici nazionali verso i ben più ampi territori del risparmio gestito su scala globale. Eppure quella della Borsa in Italia resta una sfida perduta per competitività dell’Azienda-Paese.

La “transizione finanziaria ” di lungo periodo da un’economia storicamente bancocentrica a un sistema più aperto ai canali diretti d’intermediazione di mercato non è mai avvenuta. Troppo forte (più forte, alla fine, anche delle spinte della turbofinanza globalizzata) l’inerzia di un capitalismo familiare poco abituato e disponibile ad aprire la proprietà delle imprese; e avvezzo invece ad avere in un sistema bancario tradizionale il “fornitore di credito” per la gestione e anche per lo sviluppo. Il risultato è che comunque, con un’inflazione cumulata superiore al 15% nell’ultimo biennio, i risparmiatori italiani tengono ancora oltre mille miliardi liquidi in deposito. I loro impieghi in prodotti di asset management sostengono listini – cioè gruppi quotati – non italiani e per una quota non piccola non europei. La Borsa italiana, intanto, resta “non protagonista”: senza nulla togliere a ogni sforzo di Euronext per promuovere Piazza Affari come rampa di lancio, come collettore primario di finanza d’imprese, come laboratorio di “grandi affari” da e per l’Italia, tali anzitutto per la funzione di catalizzatore di crescita per i gruppi grandi e medi.

Il Governo è da tempo preoccupato: all’Italia del Pnrr non può bastare una nuova vendemmia di risparmi privati riversati in Bot e Btp. Serve anche un rilancio del capitalismo privato finanziato da risparmio nazionale. Era la sfida “win win” che si era ritrovata fra le linee strategiche della Seconda Repubblica. Non stupisce vederla rispolverata nella gestazione complessa della Terza.

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