L’esito del voto francese si sta riflettendo anche nei corridoi del potere italiani, e non solo a Palazzo Chigi su cui si concentra l’attenzione degli osservatori. Non ci sono in gioco soltanto i diversi pesi che le due leader delle destre stanno assumendo nei nuovi assetti di governo, ma anche le strategie applicate dai vertici dei due Stati, che presentano tratti in comune. Quello tra Eliseo e Quirinale è un accostamento interessante, perché aiuta a capire cosa può accadere quando le urne restituiscono un esito imprevisto o non gradito.
In Francia il presidente Emmanuel Macron sta promuovendo, tra forti mal di pancia dei suoi stessi sostenitori, una sorta di “Union sacrée”, che fu la coalizione di unità nazionale che governò dal 1914 al 1918 per difendere la patria dalle armate degli Imperi Centrali. Ora i nuovi barbari sono le truppe di Marine Le Pen, Jordan Bardella ed Eric Ciotti. Macron non ha imparato molto da quanto è accaduto in altri Paesi, a cominciare dal nostro: quando si invoca una presunta emergenza democratica nel caso in cui vincesse l’avversario, si fa quasi sempre il gioco altrui. È accaduto con Silvio Berlusconi, si è ripetuto con Giorgia Meloni e adesso è il turno delle destre francesi. Per bloccare questa avanzata, l’arma prescelta è quella di una grande ammucchiata delle forze cosiddette democratiche che accantonano le forti divergenze su uomini e programmi pur di erigere un muro a difesa della repubblica.
Macron ha seguito questa linea aprendo una crisi e prendendosi il rischio (poi concretizzatosi) di una batosta sonora sperando che le desistenze al ballottaggio possano porre un argine all’ondata di piena del Rassemblement National. In Italia la Costituzione non assegna al capo dello Stato il potere di prendere simili iniziative: il presidente non può sciogliere le camere di sua iniziativa, ma solo a fronte di sfiducia parlamentare o dimissioni del presidente del Consiglio, e nemmeno può “pilotare” verso nuovi assetti di governo se non attraverso una discreta e riservata “moral suasion”. È accaduto varie volte, l’ultima delle quali nel 2019 quando Sergio Mattarella colse l’assist offertogli da Matteo Renzi per far sì che il M5s si alleasse con la sinistra. Una maggioranza diversa dal governo precedente (ma con lo stesso premier, Giuseppe Conte), e soprattutto lontana dall’esito elettorale. Tempi complicati, quelli, con una tornata elettorale europea che aveva proiettato sul Paese l’ombra di Salvini, sgradito a Bruxelles. Il Quirinale ebbe una parte non secondaria nel ribaltone di agosto.
D’altra parte, tra Italia e Francia c’è un dialogo molto stretto, rafforzato dallo stesso Mattarella, il cui simbolo può essere considerato il Trattato del Quirinale, un accordo strategico per una cooperazione bilaterale rafforzata il cui iter fu avviato nella legislatura con la sinistra al governo (Letta, Renzi, Gentiloni) e ratificato in quella successiva quando a Palazzo Chigi sedeva Mario Draghi. Un patto oscuro, negoziato sottotraccia, a fari spenti, il cui testo non è mai stato reso noto al Parlamento né discusso, e per questo fa pensare che Parigi abbia voluto Roma come partner in posizione subordinata. È legittimo chiedersi se un’intesa del genere sarebbe stata firmata se all’Eliseo ci fosse stato un presidente diverso da Macron. Forse il voto popolare francese e la contestuale “crisi” dell’Eliseo viene guardata con apprensione anche al Colle.
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