Una delle tradizioni più tenacemente resistenti nella scuola italiana è l’esame di Stato con cui si conclude il ciclo di studi secondari, che proprio quest’anno ha superato il primo centenario dalla sua istituzione. Cent’anni fa, nel luglio 1924, si svolse infatti per la prima volta l’esame di Stato. Non fu un esordio esaltante. Le prove furono accompagnate da vibranti proteste studentesche. I programmi degli scritti e soprattutto degli orali erano ritenuti troppo ampi e difficili rispetto alle esercitazioni con cui in precedenza si chiudevano i corsi superiori liceali e tecnici. L’inedita e innovativa presenza di commissioni d’esame esterne formate da docenti universitari incuteva non ingiustificati timori sulla severità dei giudizi.
Le lagnanze si moltiplicarono al momento della comunicazione degli esiti. I candidati che riuscirono a superare subito le prove raggiunsero a stento il 30% e soltanto con un doppio esame di riparazione si sfiorò il 60% degli approvati. A dare man forte ai bocciati si costituirono in varie città d’Italia comitati di padri di famiglia per tutelare gli interessi dei figli. Il clima si fece così incandescente che il neoministro Alessandro Casati, che proprio in quelle settimane aveva sostituito Gentile al vertice del ministero dell’Istruzione, invitò i prefetti a tenere sott’occhio gli istituti superiori per timori di disordini pubblici.
L’esame di Stato era parte della riforma scolastica varata l’anno prima con la regia di Giovanni Gentile, chiamato da Mussolini nell’ottobre 1922 per ridare un po’ d’ordine e prestigio a una scuola assai decaduta dopo le recenti vicende belliche. Nella convinzione degli intellettuali del tempo era tesi ampiamente diffusa (anche da numerose personalità non fasciste, come Salvemini, Croce, Lombardo Radice e Gobetti) che andasse ripristinata la severità dello studio per creare un ceto dirigente borghese in grado di ridare vigore e slancio alla vita nazionale.
Gentile agì con mano pesante e, in particolare, fu severo nella messa a punto dell’esame di Stato, che doveva rappresentare il degno esito finale dei corsi secondari. Il filosofo era convinto che solo chi disponeva di solide basi culturali, aveva maturato una personale capacità di riflessione e interiorizzato i valori etici comuni poteva accedere agli studi universitari e scegliere con profitto la facoltà che gli era più congeniale. Le “forche caudine” dell’esame di Stato erano concepite come la prova regina che apriva le porte alle carriere professionali superiori.
Accanto a questa finalità generale c’erano anche ragioni politiche che spinsero verso l’istituzione dell’esame di Stato, esito di un accordo tra Gentile e don Sturzo, consenziente Mussolini. Diverse le ragioni di questa intesa. I cattolici sollecitavano che i candidati che avevano seguito i corsi negli istituti privati confessionali godessero del medesimo trattamento degli altri studenti e non dovessero sostenere gli esami come privatisti. Nel concedere l’esame di Stato, Mussolini sperava di raccogliere simpatie tra i cattolici, sostenendo un’antica richiesta – quella di unico esame finale per tutti gli studenti a prescindere dall’istituto frequentato – che risaliva alla fine dell’Ottocento e che i governi liberali avevano sempre ignorato.
Gentile, come detto, intendeva “formare i migliori” contrastando una certa anarchia scolastica post-bellica e la consuetudine della promozione generalizzata alla fine dei corsi liceali e tecnici. Soltanto una prova sostenuta di fronte a una commissione esterna poteva dare garanzie di serietà negli studi e valorizzare gli studenti più promettenti.
Il rigore voluto da Gentile fu presto attaccato da più parti. Quasi subito furono previste facilitazioni per gli ex combattenti, i mastodontici programmi iniziali vennero presto ridotti, i docenti universitari – nella cui imparzialità Gentile riponeva molte speranze – poco alla volta rinunciarono a partecipare alle commissioni esaminatrici. L’esame dall’austerità gentiliana rischiò, poi, di sparire negli ultimi anni del fascismo quando il ministro Giuseppe Bottai decise di trasformarlo in una prova interna ai singoli istituti gestita dagli stessi docenti di classe. Ma l’autorevolezza della prova garantita dalla terzietà della commissione esterna aveva ormai superato le difficoltà iniziali e riuscì a scongiurare qualunque tentativo liquidatorio.
L’esame di Stato, superata senza difficoltà la prova del riordino scolastico post-fascista e previsto dall’art. 33 della Costituzione (“è prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi”), con gli anni 50 e soprattutto 60 cominciò tuttavia a ingrigirsi e a rappresentare un provvedimento che nella sua originale finalità selettiva mal si adattava in una organizzazione scolastica ormai proiettata verso la cosiddetta “scuola di massa”. Tra fasi alterne e le rivendicazioni della protesta studentesca, tra qualche residuo rigorista e spinte libertarie, si giunse infine alla riforma “anti-gentiliana” del 1969, che ridusse le prove d’esame a soli due scritti e a quattro discipline orali, una scelta dal candidato e l’altra dalla commissione esterna. In realtà quasi sempre anche la materia indicata dalla commissione era quella desiderata dal candidato grazie alla benevola mediazione del membro interno. Il ministero con il trascorrere degli anni incontrò sempre maggiori difficoltà a trovare i fondi per spostare da una parte dell’altra dell’Italia i docenti commissari. Gli anni 70 segnarono la capitolazione finale di quel che restava dell’austerità originaria.
Nonostante l’esaurirsi dell’antica formula, il prestigio dell’esame di maturità continuò a resistere circondato dalla mitologia creata nel tempo da chi lo aveva superato e nel frattempo ingigantita da film e canzoni, trasmissioni televisive e inchieste giornalistiche. Ancora oggi la “maturità” si propone infatti come un evento nazionale, nonostante gli esiti sostanzialmente insignificanti con il 99,5% di promossi. C’è poco da rallegrarsi se quasi il 100% dei candidati supera la prova, quando nel sistema-scuola persiste ancora un’ampia quota di alunni che si perdono per strada, che rinunciano nel primo anno post diploma a proseguire negli studi, che vengono strapazzati alle prove di ammissione universitarie là dove queste sono previste e se le aziende tengono ormai in pochissimo conto il voto finale ai fini dell’assunzione. Senza dimenticare i non esaltanti risultati delle prove Invalsi, la diffusa mediocrità (salvo qualche sacca meritoria) documentata dalle indagini dell’Ocse e le macroscopiche difformità valutative tra le varie parti del Paese.
Per cogliere il persistere del mito della maturità, più che interrogare la storia scolastica, bisogna volgere lo sguardo alla scenografia in cui l’esame avviene (prove uniche su tutto il territorio nazionale, il mistero degli argomenti trattati ecc.) e, ancor più, al persistere dell’evento nella memoria di tanti adulti che hanno legato i loro ricordi tardo-adolescenziali a quell’esame percepito come il simbolico passaggio (più ieri di oggi) dalla spensieratezza della prima giovinezza alle responsabilità dell’età adulta.
Una suggestione di massa basata sui ricordi di una ipotetica realtà magica con docenti e compagni di classe indimenticabili nella quale sono incardinati i ricordi personali. Da qui alla creazione del mito della maturità il passo è breve, mito facile da vivere, felice e indimenticabile perché – salvo pochissimi casi – associato nell’ultimo mezzo secolo a difficoltà facili da superare e coronate da esito positivo.
Nell’attuale situazione di scolarizzazione generalizzata con promozione pressoché garantita bisogna avere il coraggio di dire che questo modello di esame di Stato serve a poco, anzi forse non serve proprio più.
Ma questa constatazione non risolve tutti i problemi, perché una scuola equa e inclusiva ma senza valorizzazione del merito tradisce la sua natura formativa. Senza invocare nostalgicamente l’austerità gentiliana oggi del tutto incompatibile con realtà della scuola di massa, non è tuttavia fuori luogo pensare che sia giunto il momento di rivedere radicalmente (e dunque non solo con piccoli ritocchi come è avvenuto nel recente passato) l’esame di maturità e ridargli dignità e senso all’insegna del doppio principio equità/merito. Una sola raccomandazione per chi prima o poi dovrà occuparsene: per favore non si pensi a batterie di test con relative crocette.
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