Che può fare Sergio Mattarella se non difendere la Costituzione di cui è garante. Lo ha fatto a Trieste intervenendo alla cerimonia di apertura della 50esima edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia. Da Presidente sa che il Parlamento è sovrano, ma sa anche che la Costituzione venne scritta per non essere modificata semplicemente. E sa che tra i valori immanenti alla Carta ve ne è uno su tutti: il principio dell’equilibrio tra i diversi attori costituzionali contro ogni tentazione di “assolutismo”. Ognuna agisce in equilibrio con gli altri, perciò ogni riforma proposta degli assetti di potere interni allo Stato interroga chi la custodisce.
Se poi l’istituzione al centro della proposta di riforma è la sua, allora si comprende con chiarezza che i suoi moniti sono del tutto legittimi. Quando Mattarella parla di valori e principi lo fa nella sua funzione di custode della Carta che sarà pronto sempre a difendere, laddove la riforma arrivi in porto. Nel frattempo deve dare la sua visione non tanto sul merito delle riforme quanto su ciò che la Carta difende e propugna. Davanti al ddl Meloni-Casellati il capo dello Stato sa che si rischia di mettere nelle mani di una parte sola non tanto il rafforzamento del Governo, quanto la possibilità che il fallimento politico di un governo metta in crisi lo Stato. Quando tutto manca, e spesso è capitato negli ultimi anni, solo i poteri della Presidenza della Repubblica hanno dato ai cittadini la percezione che lo Stato era solido nella bufera. E non è un caso che le crisi politiche si siano accompagnate a crisi economiche, durante le quali i partiti hanno ritirato i loro uomini dai governi politici nel timore di dover assumere decisioni difficili. Se in quei momenti fosse alterato il potere di riequilibrio esercitato oggi dalla Presidenza della Repubblica che ne sarebbe dello Stato, del Paese? Di certo nulla di buono.
Come ha detto Mattarella a Trieste, il rischio è che il combinato disposto di scarsa partecipazione al voto popolare, premio di maggioranza, istituzioni governative più forti e senza contrappesi, produca l’effetto di rendere egemoni fette minoritarie del Paese che potrebbero a quel punto agire in modo incoerente con i valori che lui oggi rappresenta, senza che nessuno possa intervenire dopo un riforma costituzionale che limita i poteri del Presidente della Repubblica (nello stesso tempo, nulla impedisce di chiedersi se i poteri del presidente della Repubblica scritti in Costituzione nel ’48 siano quelli che abbiamo visto esercitati negli ultimi trent’anni).
Tutti i destinatari hanno recepito il messaggio: da un lato la presidente del Consiglio, che ha sempre negato che la riforma del premierato toccasse i poteri del Quirinale, va scoprendo che non si può mentire, neppure se le intenzioni – assicurare la “governabilità” – sono buone. Ed è assalita dai dubbi. Dall’altro la sinistra, che pensa a schemi francesi in vista del referendum costituzionale. Insomma, la battaglia è appena cominciata. E in campo c’è anche il Quirinale.
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