Proseguiamo la nostra proposta di film capaci di costruire la pace e il bene comune, combattendo con coraggio per la verità, con il sostegno della speranza.
La Treccia è l’adattamento cinematografico dell’omonimo bestseller e primo romanzo scritto dalla stessa regista Laetitia Colombani, che ha firmato anche la sceneggiatura. Partendo dall’esperienza dolorosa della malattia di un’amica, l’autrice francese ha immaginato una vicenda che in realtà di storie ne racconta tre. “Voglio parlare di cosa significhi essere donna nel mondo di oggi. Tre donne, tre Paesi, tre continenti. Tre donne che parlano lingue diverse, che hanno culture diverse, religioni diverse. Che non hanno niente in comune, eppure ciascuna si trova a un punto di svolta”. E la treccia del titolo? I capelli diventano il simbolo e il mezzo attraverso il quale riusciranno a liberarsi. I ritratti delle tre affascinanti figure femminili, che non si incontreranno mai, letteralmente si intrecciano misteriosamente costruendo un affresco “di tutte le donne dimenticate della Storia, quelle eroine senza nome che passano la vita a combattere battaglie titaniche”. A loro la Colombani dedica il film, regalandoci un inno alla forza femminile, senza scadere mai in banale femminismo.
Giunto nelle nostre sale dopo un clamoroso successo in Francia, dove ha attirato più di un milione di spettatori, e in tutta Europa, La Treccia è accompagnato dalle note suggestive di Ludovico Einaudi, che si adattano perfettamente ai tre scenari così diversi ma ugualmente segnati da un momento molto difficile delle tre protagoniste: l’India più povera, il Canada moderno, ricco ed emancipato e un paesino assolato del Sud Italia.
Il film si apre con la vita derelitta di una famiglia di intoccabili nell’India del Nord in cui Smita (un’intensa Mia Maelzer), una madre Tamil, è condannata a pulire i bagni per i bramini che la guardano con disprezzo. Vorrebbe una nuova vita almeno per la sua bambina e perciò, grazie a un piccolo gruzzolo accumulato di nascosto con grande fatica, la manda a scuola perché possa uscire dalla loro condizione di totale emarginazione. L’insegnante bramino però umilia pubblicamente e duramente la piccola, costringendola a spazzare il pavimento e percuotendola, invece di offrirle i rudimenti del sapere necessari per emanciparsi. La madre non si arrende e pur di cambiare la situazione decide di fuggire, all’insaputa del pavido e rassegnato marito, affrontando un viaggio lungo e impegnativo.
Dall’afosa e sovraffollata India la cinepresa si sposta nella luminosa Puglia (il film è girato tra Monopoli e Conversano), dove Giulia (la brava Fotinì Peluso dallo sguardo profondo e dalla bellezza quasi inconsapevole), lavora col padre che possiede un laboratorio di parrucche con capelli veri. È molto legata a lui, ma deve affrontare la sua improvvisa e dolorosa scomparsa per un incidente. Alla sofferenza si aggiunge il dramma della scoperta che in realtà la piccola azienda di famiglia è piena di debiti e addirittura prossima al fallimento. Sua madre pensa di risolvere brillantemente il problema spingendo la ragazza a un matrimonio di convenienza. Ma Giulia è una giovane libera e ribelle e per di più si sta innamorando di un giovane Sikh intraprendente e perspicace, che la aiuterà a immaginare un nuovo futuro per l’officina di famiglia, superando diffidenze e tradizioni radicate, per proiettarsi nella modernità. Così la giovane donna si apre a un’idea di rinnovamento del lavoro anche grazie all’intuizione del suo innamorato indiano, proprio lui, col suo turbante tradizionale che nasconde i lunghissimi capelli, simbolo di un mondo così lontano.
Terza protagonista del film è Sarah (Kim Raver), una bella avvocatessa di Montréal, che sacrifica sogni e affetti alla carriera, correndo senza sosta nella modernissima e impietosa città canadese. Non può certo rallentare il ritmo, malgrado il fallimento di due matrimoni e le difficoltà adolescenziali della prima figlia, nemmeno quando scopre di essere gravemente malata e dovrebbe semplicemente curarsi. Non vuole neppure dire la verità sul posto di lavoro, per non compromettere l’avanzamento di carriera tanto atteso.
Le tre protagoniste non si incontrano mai e neppure si conoscono, ma c’è un filo conduttore delle rispettive storie, che emerge lentamente: i capelli, elemento importantissimo per ogni donna, segno distintivo della bellezza femminile. Ciò che le unisce davvero è però il loro coraggio, la loro ricerca audace e instancabile di un futuro migliore. Per la figlia di Smita, per sottrarla al rigido e crudele mondo delle caste; per Giulia che tenta l’impossibile per salvare l’azienda di famiglia abbattendo le barriere del pregiudizio che escludono la donna dal mondo del lavoro, infine per Sarah che trova la forza di accettare il verdetto del medico che le diagnostica il cancro e decide di rivoluzionare le sue priorità nella vita, per riconoscere ciò che vale veramente.
Tutte sono accomunate dalla capacità di lottare, di non arrendersi, non solo per se stesse, ma per il bene di un figlio, di un’azienda o di un’intera famiglia. Il loro legame è dunque sottile e tenace, è quello della fiducia e dell’attesa di un cambiamento che sappia costruire mondi nuovi anche o soprattutto quando la situazione diventa drammatica e sembra senza via d’uscita. La treccia è una pellicola che ci apre al mondo e ci svela le risorse nascoste di chi custodisce la speranza. Una visione gratificante e confortante per tutte le donne, ma certamente un film istruttivo e commovente anche per gli uomini, che possono vedere con i loro occhi la grandezza delle loro compagne di vita e imparare a guardarle con rispetto e ammirazione.
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