È un paese piccolissimo l’Armenia: meno di 30mila kmq, per tre milioni di abitanti. Un popolo sovraccarico di memoria: è la terra di pietra che, leggenda vuole, Dio scelse come luogo di ripartenza con il suo scudiero Noè. Un popolo di commercianti poliglotti, di viaggiatori, poeti, mistici, contadini che, oggi, abita un decimo di quella che era storicamente la terra di Armenia: i suoi confini, rosi e rosicati dalla violenza e dagli stermini, sono continuamente rimodificati.
È un popolo sempre sull’orlo della sparizione: la Chiesa, sotto le purghe sovietiche, ha pagato un prezzo pesante. La terra di un genocidio molto più letale di quello ebreo: qui, trent’anni prima di Auschwitz e Birkenau, si tentò di cancellare il popolo armeno. Non solo: si tentò, poi, di cancellare dalla storia il tentativo fatto di cancellare il popolo armeno. Doppio genocidio: della carne e della memoria. Non l’appresi a scuola – che non me lo raccontò – ma dalle pagine di una voce d’Armenia: “In quella lontana, solare giornata di maggio lei e i suoi familiari, piccoli e grandi, sono stati giudicati e trovati colpevoli di esistere – scrive Antonia Arslan –: Dio si è velato” (La masseria delle allodole).
Quasi un milione e mezzo di armeni sterminati. Ancora oggi il suo destino staziona tra secoli di persecuzioni, stenti, diaspora, vita errante, pogrom. Non esiste l’armeno, esiste l’armeno di Turchia, di Francia, d’America. “Siamo sempre armeni a metà” dice la nostra guida Arminè, citando il loro poeta Ghevorg Emin. L’Armenia è una nazione costretta a sviluppare per forza una sua identità, compressa com’è tra Paesi ingombranti come la Turchia, la Russia, l’Iran, l’Azerbaijan. Minacciata e scampata, sempre col rischio di sparire, l’identità ne esce giocoforza potenziata.
Non è facile parlare dell’Armenia, degli armeni: presa a pugni dalla storia, il rischio è oscillare tra il timore ossequioso e la retorica sdolcinata: “Vi chiedo la cortesia, adesso che ritornate, di non ricordarci come ‘quelli del genocidio’, ma ricordateci per la bellezza che i vostri occhi hanno visto” ci chiede la guida. Un pellegrinaggio, il nostro, non un viaggio: al turista interessa forzare gli occhi e la memoria, al pellegrino sta a cuore il suo cuore. Viaggia per rimescolare il cuore, che poi aprirà gli occhi e alimenterà la memoria.
Ci aiuta la bellezza che, qui, è isolata, sobria, semplice, come attesta la presenza dei suoi monasteri: Khor Virap, Novarank, Geghard, Tatev. Monasteri che non sono solo un’attrazione ma rappresentano l’identità di questa terra che, prima tra tutte, ha abbracciato il cristianesimo come religione ufficiale: correva l’anno 301. Gregorio l’Illuminatore, che qui è padre della Chiesa e della memoria, per 13 anni fu tenuto prigioniero in un pozzo a Khor Virap: il re, Tiridate III, schifava il cristianesimo e i seguaci venivano perseguitati ferocemente. La sorella, dopo un sogno fatto, lo costrinse a liberarlo e Tiridate, guarito dopo essere stato ammalato, per riconoscenza si convertì al cristianesimo, la consacrò religione di Stato.
Sono luoghi, i monasteri che restano, tutt’oggi, come fari silenziosi nell’assolata terra di Armenia. Qui il pellegrino fiuta ben presto che la storia si misura in millenni: ci troviamo in quella parte di mondo definita “la culla dell’umanità”. Ci muoviamo tra le tracce più antiche della storia umana. Il faro più voluminoso, l’Ararat, il monte sacro: il destino vuole che sia beffardamente al di là del confine (chiuso) con la Turchia. Vicinissimo e lontanissimo: intimo e forestiero. Disegnato persino sul cognac.
A Yerevan arriviamo e ripartiamo: è la capitale, forse la meno densa di storia tra tutte le città armene. Forse anche un po’ kitsch con i suoi mattoni rosa, è opera degli armeni della diaspora: han fatto fortuna altrove e poi sono ritornati. Attorno alle sue fontane, i viali e le piazze brulicano di gente, il chiacchiericcio dura ore, si tira fino a notte fonda: se sei stato ad un passo dal perdere tutto, non hai né il tempo né la voglia di portare rancore oppure di odiare. Ti siedi e racconti la storia all’ospite viziandolo con carne alla griglia, foglie di vite ripiene di carne tritata, zuppe dense a base di maiale o di manzo, i ravioli. Deliziandolo col lavash, il pane piatto, sottile, morbido.
L’impressione, ai miei occhi pellegrini, è che l’armeno sia la sentinella dell’Europa cristiana: sopra loro c’è sempre un carico di nubi dal quale incombono bombe, odio, voglia di stermino. Gli armeni, però, ci sono ancora: c’è voluto tempo perché i sopravvissuti tornassero, ma ce l’hanno fatta a ritornare. Ce la rifaranno sempre: è destino dei popoli massacrati non cedere mai completamente al loro massacro. Quando qualcuno, nel secolo scorso, fece notare a Hitler che sterminare milioni di ebrei non sarebbe passato inosservato, lui disse: “Chi, ancora oggi, ricorda lo sterminio armeno con tutto quello ch’è accaduto attorno?”. Fu il più grande smacco del Führer tedesco: non si può cancellare un popolo, né la sua memoria.
L’ha attraversata Senofonte l’Armenia, l’abbiamo attraversata anche noi: a ciascuno ha detto cose diverse. Presentando le stesse pietre. Potenza della bellezza che, angosciata, conquista il cuore. Come una rosa strapazzata dal vento. L’Armenia è una rosa: “La rosa migliore è quella tormentata e sofferta”, scrisse un poeta di queste zone.
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